Roberto Perotti, “L´università  truccata”: si spende tanto e male

Allora, partiamo da una considerazione.° ° ° 

Che l´Università  italiana venga in rilievo quasi esclusivamente per gli sprechi, le inefficienze, il nepotismo e le clientele: è un dato, oramai, assodato. I tagli contenuti nella famigerata legge 133 (parzialmente rivisti), hanno come obiettivo, proprio quello di invertire questa tendenza consolidatasi negli ultimi decenni. Se le università  sprecano danaro pubblico, danaro che proviene dalle tasse versate anche dai pensionati e dagli operai di 60 anni (che dell´università  non fruiscono), l´unica cosa sensata che si possa fare, è costringerle ad avere comportamenti virtuosi.

Moltiplicano cattedre per assumere figli, nipoti ad amanti? Incrementano i corsi di laurea, arrivando ad istituirne addirittura alcuni, cui risultano iscritte 5 persone?

Bene: si taglino le risorse stanziate da Pantalone (voi e me, cittadini-contribuenti), e così le si costringerà  ad avere un comportamento morigerato, rispettoso degli studenti, e delle persone indigenti che con le proprie tasse, quelle stesse università  contribuiscono a mantenere in vita.

Ora, quando ho scritto questo post, però, mi si è fatto notare (nei commenti), alcune cose: l´Ocse dice che i finanziamenti alla nostra Università  sono bassi, rispetto a quelli di altre nazioni, così com´è bassa la spesa pro-capite per studente. Allo stesso tempo, mi si è obiettato che non è con i tagli che si possano curare i mali che affliggono gli Atenei, proprio perché i finanziamenti complessivi rivolti ad essi, se paragonati a quelli di altri paesi, sono assai più contenuti.

Come si tenterà  di dimostrare in questo post, tali obiezioni sono tutte prive di fondamento!

Innanzitutto, perché come qui si è già  evidenziato, la più parte dei soldi indirizzati alle università , non° viene destinata agli studenti o alla ricerca: in quanto utilizzata, quasi esclusivamente, per pagare stipendi a baroni e affini (che continuano ad assumere parenti, senza freno alcuno).

In secondo luogo, come spesso avviene, non è sufficiente leggere un dato – nel caso in esame, quello dell´Ocse relativo all´ammontare dei finanziamenti italiani all´Università  -, per ottenere una risposta esaustiva, e per comprendere un fenomeno. Per il semplice motivo che il lettore occasionale, il non addetto ai lavori, può trovarsi ad ignorare i metodi grazie ai quali si è giunti ad elaborare quel dato, quell´analisi quantitativa.

Insomma: il non addetto ai lavori legge un numero, ma non sa in quale modo si sia arrivati ad ottenerlo. Ed è qui che casca l´asino, a proposito delle cifre fornite dall‘Ocse, in relazione alle università  italiane!

Quelle analisi, come si dirà  di seguito, non tengono conto di alcuna specificità  italica (specificità  che rende la nostra Università , unica al mondo): ad esempio il fatto che il 50% degli studenti universitari italiani sia fuori corso, e che il 20% non dia esami (giovanotti, leggete qui e qui).

In altre parole, per il nostro paese, il dato Ocse si riferisce “alla spesa media per studente iscritto“, e, quindi, non tiene conto del fatto che una quantità  industriale di studenti universitari non frequenti corsi, seminari, o lezioni in laboratorio, perché all´università  non mette piede! E siccome questa gente non frequenta materialmente le facoltà , nonostante risulti iscritta ad esse, non costa all´Università , quanto costerebbe se effettivamente frequentasse i corsi e se desse esami. Anzi, si può dire che non costi un accidente, è come non esistesse, come se non fosse iscritta. Chiaro?

Per le altre Nazioni, invece, l´Ocse ha usato un altro parametro: “la spesa per studente equivalente a tempo pieno, cioè calcolando il numero degli studenti pesati per i corsi effettivamente seguiti e gli esami effettivamente sostenuti“.

Metodo che per la nostra università  non è stato impiegato, proprio perché quel tipo di indice era difficile da ricavare, dato l´elevato numero di fuori corso e l´alta percentuale di studenti che non sostengono esami.

Queste cose, il non addetto ai lavori, non le saprà  leggendo i dati Ocse. E, dunque, facendo ricorso solo ad° essi,° inevitabilmente finirà  per farsi° un´idea sbagliata, più che parziale: assolutamente falsa.

Ora,° i chiarimenti° appena riportati, non li° ha formulati il pirla che vi scrive (che, a malapena, riesce a fare un’addizione).° Ma il professor Roberto Perotti, nel libro L´Università  truccata (Einaudi, Gli struzzi; 16 euro). Libro di cui si riporterà  ampi stralci, utili a comprendere come funzioni davvero l´Università .

Prima di proseguire, però, è necessario fare alcune premesse.

Innanzitutto, è opportuno chiarire chi sia Perotti. Riporto dalla terza di copertina (del libro): “Roberto Perotti ha conseguito il PhD in Economia al Mit di Boston. Ha poi insegnato per dieci anni alla Columbia University di New York, dove ha ottenuto la cattedra a vita. Tornato in Italia, oggi insegna all´università  Bocconi di Milano. Ha pubblicato lavori di macroeconomia sulle maggiori riviste scientifiche internazionali. Dal 2003 al 2008 è stato condirettore della rivista scientifica ufficiale dell´Associazione degli economisti europei, il “Journal of the European Economic Association”, e oggi è membro del comitato editoriale di altre riviste scientifiche di economia. E´ membro del National Bureau of Economic Research statunitense e del Center for Economic Policy Research Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Interamericana dello Sviluppo e la Banca d´Italia. E´ editorialista del “Sole 24 Ore” e redattore del sito di informazione economica lavoce.info. Con Tito Boeri ha pubblicato nel 2002 Meno pensioni, più welfare”.

Faccio sommessamente notare, che lavoce.info – soprattutto per la presenza di Tito Boeri – è il sito degli economisti “vicini”° al Partito democratico. Dunque Perotti non è un berlusconiano.

Ciò detto, devo premettere ancora qualcosa, prima di riportarvi alcuni estratti del suo libro.

Nello stesso, vengono riprodotte alcune tabelle. Ma siccome il sottoscritto non dispone di uno scanner (non saprei cosa farmene), le tabelle in questione – in alcuni casi, citate nel saggio – non saranno riportate in questo post. Ad eccezione di una che, essendo abbastanza grande e nitida, ho fotografato col telefonino, e vi presenterò nel post.

Ultima considerazione: Perotti ha scritto questo libro prima che scoppiasse la bagarre sulla legge 133, e non condivide il carattere non selettivo dei tagli da essa previsti. Dunque, le sue analisi, non possono – come già  ho detto – essere qualificate come proprie di un filoberlusconiano.

Ciò premesso, iniziamo.

Capitolo III.

I. Falsi miti, I: all´università  italiana mancano risorse (pagina 35).

“Secondo l´establishment, il vero problema è la mancanza di fondi. E nonostante questo sottofinanziamento cronico, l´università  riesce a essere all´avanguardia nella ricerca, e ad assicurare l´accesso gratuito all´istruzione terziaria a tutti coloro che lo desiderino, promuovendo così l´equità  e la mobilita sociale”.

“I dati, tuttavia, dicono chiaramente che tutti questi quattro miti sono falsi“.

“Quale sia la posizione politica, la diagnosi dei mali dell´università  e la cura che si propone, su una cosa rettori, professori, studenti, politici, commentatori e giornalisti sono d´accordo: l´università  italiana soffre di una drammatica carenza di risorse”.

“In effetti, qualsiasi indicatore di spesa per studente sembrerebbe porre l´Italia agli ultimi posti tra i paesi industrializzati. Per esempio, le cifre assai citate della pubblicazione dell´OCSE Education at a Glance danno per il 2004 una spesa annuale in istruzione terziaria di 7723 dollari per studente aggiustati per la parità  di potere d´acquisto (nota del libro: questa metodologia elimina gli effetti delle differenze dei prezzi dei beni e servizi in diversi paesi: un dollaro compra più beni e servizi in Messico che negli Usa, dove i prezzi sono più alti; un dollaro PPP compra lo stesso paniere di servizi nei due paesi. E´ quindi più informativo confrontare la spesa in dollari aggiustati per la parità  di potere d´acquisto. Di fatto, quest´ultima è la procedura standard dei raffronti internazionali di spesa universitaria); superiore, e di poco, solo a quella di Ungheria, Corea, Repubblica Ceca, Slovacchia, Messico, Grecia, Polonia”.

“Scoprire che l´Italia spende poco più del Messico dovrebbe far nascere più di un dubbio sulla validità  di questi dati“.

“Una investigazione un poco più approfondita infatti rivela che per i tutti i paesi eccetto l´Italia queste cifre si riferiscono alla spesa per studente equivalente a tempo pieno, cioè calcolando il numero degli studenti pesati per i corsi effettivamente seguiti e gli esami effettivamente sostenuti: all´incirca, uno studente che in un anno fa solo la metà  degli esami del carico normale riceve un peso di 0,5, e così via”.

Uno studente che non frequenta e non dà  esami non sottrae tempo ai docenti e non impone costi all´ateneo dove è iscritto: se un ateneo spende 10 euro ed ha due studenti, di cui uno non frequenta, tutta la spesa dell´università  di fatto è diretta allo studente che frequenta, quindi il costo medio per studente equivalente a tempo pieno non è di 5 euro, ma di 10″.

“Per mancanza di informazioni, tuttavia, il dato italiano (quello fornito dall´Ocse, nota di camelot) si riferisce alla spesa media per studente iscritto, quindi attribuendo il peso intero anche agli studenti fuori corso e agli studenti inattivi, cioè che non danno esami“.

“La differenza è rilevante, perché è ben noto che in Italia circa il 50 percento degli iscritti sono fuori corso, e il 20 percento non ha superato esami (nota del libro: Cfr. CNVSU “Offerta formativa, laureati e studenti)”.

Se si utilizza il coefficiente di .483 fornito dal MIUR per il 2003 (non vi sono dati per gli anni successivi) per convertire il numero di studenti iscritti nel numero di studenti equivalenti a tempo pieno, la spesa italiana per studenti equivalente a tempo pieno diventa 16.027 dollari PPP, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia (nota del libro: in realtà , ora la spesa italiana è fin troppo alta: forse non è del tutto plausibile che si spenda quasi il doppio per studente equivalente a tempo pieno che in Nuova Zelanda, e 5000 dollari più che in Francia o nel Regno Unito)”.

“Un metodo alternativo ma molto simile consiste nel calcolare, anziché la spesa annuale per studente, la spesa per studente durante la durata media effettiva degli studi, che come è noto in Italia è mediamente molto alta”.

Se si utilizza questo indicatore, e secondo i calcoli di una fonte non sospetta quale la Conferenza dei Rettori, l´Italia spende più delle media OCSE, e più di Francia e Regno Unito (nota del libro: Cfr. CRUI: “La voce del sistema universitario – Laboratorio di innovazione”).

“Questi dati, però, non vengono mai citati dai rettori quando si lamentano della mancanza di fondi”.

“Questi confronti internazionali vanno comunque presi con molta cautela, perché è praticamente impossibile assicurarsi che per ogni paese si prendano in considerazione esattamente gli stessi tipi di studenti e le stesse spese”.

“Per questo può essere utile ricostruire dalle fonti primarie (i bilanci dei singoli atenei) la spesa universitaria e le dotazioni di studenti e docenti in due sistemi come quello italiano e quello britannico, simili da un lato perché quasi completamente pubblici, ma diversi dall´altro lato perché il secondo è molto più produttivo”.

“I risultati sono nelle Figure 2 e 3 (per le ragioni succitate, non m´è stato possibile riportare tali figure, me ne scuso, nota di camelot). I dati si riferiscono all´anno accademico 2005/2006, l´ultimo disponibile al momento di scrivere questo libro, e coprono 63 atenei statali in Italia e 168 in Gran Bretagna”.

“Vediamo prima il rapporto medio fra studenti e professori: un valore più alto indica che ogni professore deve accudire, in media, più studenti, e dunque suggerisce un carico didattico medio maggiore”.

“La prima colonna della Figura 2 mostra che in effetti il rapporto studenti/docenti di ruolo (cioè, in Italia, ricercatori, professori associati, e professori ordinari) in Italia è di circa 33, contro 25 in Gran Bretagna”.

“Tuttavia, come abbiamo visto circa la metà  degli studenti italiani sono fuori corso, e molti non frequentano. Se si calcola il rapporto fra studenti equivalenti a tempo pieno e docenti di ruolo, la colonna 2 mostra che Italia e Gran Bretagna hanno esattamente lo stesso valore, 17,5 (nota del libro: si noti che il dato italiano, 17,5, è molto vicino, e addirittura inferiore, al rapporto studenti equivalenti a tempo pieno/docenti di ruolo calcolato dal MIUR per il 1999/2000, cfr. Istat (2003) p. 23)”.

“Quando poi si considerino non solo i docenti di ruolo, ma anche quelli a contratto e altro personale docente, quali tutor e collaboratori linguistici, il rapporto tra studenti e docenti diventa più alto in Gran Bretagna, 10.4 contro 9.1 in Italia”.

“Passiamo ora ai fondi disponibili. La Figura 3 mostra che la spesa totale per studente equivalente a tempo pieno italiana è inferiore a quella britannica, ma non in modo drammatico: 15.800 dollari aggiustati per la parità  del potere d´acquisto, contro 17.700, quindi una differenza di circa il 12 percento”.

“Abbiamo visto che la spesa totale durante gli anni di studio, calcolata con altri dati e da un´altra fonte, è invece superiore in Italia che in Gran Bretagna“.

“Ma quale è in media la remunerazione dei docenti nei due paesi?”.

La Tabella 2 mostra per l´Italia le remunerazioni tabellari minime e massime, e la remunerazione media effettiva di ogni grado di docenza; per la Gran Bretagna, la tabella mostra le remunerazioni minime, medie e massime di 10 atenei rappresentativi, più gli stessi valori per l´università  di Oxford. Anche in questo caso tutti i valori sono stati convertiti in dollari aggiustati per la parità  di potere d´acquisto (nota del libro: colonne 1 e 3: A. Pagliarini, Tabella retribuzioni 2004. Colonna 2: CNVSU, I costi annuali del personale di ruolo. Colonne da 4 a 8: Kubler, J. e Roberts, B., 2004-05 Academic Staff Salary Survey, Association of Commonwealth Universities)”.

La tabella mostra chiaramente che in Italia le remunerazioni medie e massime di ricercatori e professori associati sono superiori (per favore, rileggetevi quanto appena riportato, almeno 200 volte, nota di Camelot)”.

“Sono invece inferiori quelle minime, e quasi certamente quelle massime degli ordinari (anche se per la Gran Bretagna su queste ultime non vi sono dati”.

“Questo ci indica cosa non va nella spesa italiana: non è l´ammontare totale per studente, o la remunerazione media dei docenti, che è insufficiente; è la sua distribuzione e la sua progressione che sono perverse“.

“In Italia si pagano pochissimo i ricercatori appena entrati nell´università , cioè i più giovani e motivati, ma c´è una progressione stipendiale velocissima per effetto della sola età , che porta gli stipendi medi e massimi a essere ben superiori a quelli britannici. Inoltre, in Gran Bretagna c´è la possibilità  di retribuire molto le superstar di ciascuna disciplina, il che spiega perché in quel paese sono maggiori gli stipendi massimi degli ordinari”.

“Ancora più evidente (e sorprendente, data la mitologia sulla povertà  delle ricerca in Italia) è la differenza con il sistema statunitense. Come mostrano Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005), un ordinario italiano con 25 anni di servizio da ordinario può raggiungere uno stipendio superiore a quello del 95 percento dei professori ordinari americani in università  con corsi di master (cioè tra le migliori, inferiori solo a quelle che hanno corsi di dottorato), indipendentemente dalla sua produzione scientifica (rileggetevi 1000 volte questi pochi righi, per favore, nota di Camelot)”.

“Ma mentre nelle università  americane il rapporto tra lo stipendio tipico degli ordinari e degli assistenti è di 1,5 a 1, in quelle italiane il rapporto tra lo stipendio a fine carriera di un ordinario e quello di ingresso di un ricercatore può arrivare a raggiungere valori di 4,5 a 1”.

“In altre parole: si spendono molte risorse per premiare esclusivamente l´anzianità  di servizio; queste risorse sono necessariamente sottratte ai giovani, che sono tipicamente i ricercatori più motivati e proficui (in molte discipline, soprattutto quelle scientifiche, la produttività  e la originalità  accademica raggiungono infatti un massimo verso i 40-45 anni)”.

“E´ questo un sistema che sembra fatto apposta per allontanare i talenti: sono esattamente coloro che pensano di non potercela fare con le proprie risorse che avranno più incentivo a scegliere una carriera che remunera esclusivamente l´anzianità , una variabile in cui tutti sono egualmente bravi senza nessuno sforzo”.

“Anche i finanziamenti statali agli atenei, distribuiti dal Fondo di Finanziamento Ordinario, riflettono quasi esclusivamente i finanziamenti passati, e quindi sono totalmente indipendenti dalla performance”.

“Una parte di questi fondi, la Quota di Riequilibrio (che non ha mai superato il 10 percento del totale, e recentemente è scesa quasi a zero), avrebbe dovuto essere distribuita per correggere gli squilibri fra atenei”.

“Ma poiché le variabili da “riequilibrare” sono potenzialmente infinite, la sua distribuzione è avvenuta in base a una quantità  di criteri, alcuni semplicemente bizantini; in particolare, qualsiasi tentativo di attribuirne almeno una parte in base alla qualità  delle ricerca è fallito“.

“Per esempio, nel 2006 la Quota di Riequilibrio fu inizialmente di 250 milioni (circa il 4 percento del finanziamento totale), ma ci si assicurò che essa non avesse alcun effetto rilevante stipulando esplicitamente che ogni ateneo avrebbe dovuto ricevere almeno il 99,5 percento dei finanziamenti dell´anno precedente: di fatto ciò significò attribuire solo 50 milioni (meno dell´1 percento del finanziamento totale) con il meccanismo della Quota di Riequilibrio”.

“In ogni caso, poiché il ministro Mussi si è rifiutato di utilizzare i risultati della valutazione della ricerca compiuta dal CIVR (e perché nessuno ha protestato e occupato università , all´epoca?, nota di Camelot), a tutt´oggi la qualità  della ricerca non figura tra i parametri in base ai quali assegnare i fondi statali agli atenei“.

Allora, il professor Perotti ha considerato diverse variabili, nella sua analisi. Cercando di sfatare molti luoghi comuni. Tra essi, il fatto che l´Università  italiana riceva pochi soldi. Così non è, evidentemente.

Ora, è chiaro che per mettere a posto il sistema universitario, non sia sufficiente tagliare e basta. Ma è da qui che si deve partire.

Per troppi decenni, infatti, i professori, i Presidi e i Rettori dei vari Atenei d´Italia, si sono comportati come veri e propri satrapi (qui se n´è parlato), scialacquando a cavolo di cane, risorse pubbliche; e sottraendole al diritto allo studio e alla ricerca.

I correttivi che il governo ha apportato alla legge 133, inoltre, rappresentano un primo passo per introdurre criteri meritocratici e più trasparenti, nel mondo accademico.

L´Università  va cambiata.

E chi si oppone a ciò, non lo fa di certo nell´interesse degli studenti e della ricerca.

P.S: ricordo che il libro citato è L´Università  truccata, di Roberto Perotti.

P.S.2: le tabelle pubblicate all´inizio del post, sono contenute in quest´articolo del Corriere della Sera (leggetelo). E consentono di verificare, in modo inequivocabile, quanto la più parte delle risorse stanziate per l´Università , venga usata per pagare stipendi, e non per garantire il diritto allo studio e una ricerca di qualità . Precisamente ciò che si è detto in questo post. Ancora in tema di sprechi: da leggere questo e questo.

Legge 133: quello che c´è da sapere.

Se volete, votate Ok.

Leggi altre news su per il Popolo delle Libertà .

53 Responses to "Roberto Perotti, “L´università  truccata”: si spende tanto e male"

  • caldanei says:
  • pablo says:
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