I miei 25 aprile e quelli dei bigotti rossi

Giampaolo Pansa, su il Riformista:

“Il mio primo 25 aprile fu quasi in presa diretta. Pochi giorni dopo la fine della guerra, arrivò a Casale Monferrato un capo partigiano importante: Pompeo Colajanni, il famoso Barbato. Guidava una divisione garibaldina e aveva iniziato a combattere subito dopo l’8 settembre 1943, in val del Po. Siciliano di Caltanissetta, classe 1906, iscritto al Pci clandestino, era stato ufficiale di cavalleria a Pinerolo. Aveva un aspetto fiero e splendidi baffi. Vestiva una divisa inglese e portava il basco nero con una piccola stella rossa. Barbato viaggiava in jeep e lo fecero sfilare per il centro cittadino. Transitò in via Roma, dove c’era il negozio di mia madre. Andavo per i dieci anni e sedevo sul gradino di “Mode Pansa” con il libro che stavo leggendo: “I tre moschettieri”.

Mio padre mi chiese: “Sai chi sta passando?”. Guardai il viso del comandante, colpito dai mustacchi. E pensando a uno degli eroi di Dumas risposi: “Porthos!”. Mio padre esclamò: “Ma che Porthos! Passa la libertà“.

La guerra civile era appena finita. In quei venti mesi avevo imparato una legge indiscutibile: i partigiani erano tutti buoni e i fascisti tutti cattivi. Due mesi dopo, la legge venne smentita. L’11 luglio 1945, nei giardini pubblici della città, due partigiani comunisti uccisero a rivoltellate Mario Acquaviva, astigiano, ragioniere, uomo di un coraggio mite.

La vittima non era un fascista, come accadeva di solito in quei giorni di mattanze. Era anche lui un rosso, sia pure di un piccolo gruppo inviso al Pci: il Partito comunista internazionalista. Un dissidente, un antistaliniano, un eretico. Lo accopparono perché considerava Togliatti un servo di Mosca. E Stalin un capitalista. Mia nonna Caterina commentò: “Adesso che hanno vinto, i comunisti si ammazzano tra loro”.

Iniziai a domandarmi come mai i partigiani non erano tutti buoni e bravi. Una prima risposta la scovai nell’estate 1952, fra i sedici e i diciassette anni. Il mio maestro di letture, il libraio Romeo Giovannacci, mi fece acquistare un volume appena stampato da Einaudi nei Gettoni: “I ventitrè giorni della città di Alba”.

Era di uno scrittore sconosciuto: Beppe Fenoglio, di Alba, partigiano nelle formazioni autonome. Lo lessi tutto d’un fiato. Poi lo rilessi subito. Avevo scoperto uno degli autori della mia vita.

Ma ai comunisti Fenoglio non piaceva. Me ne resi conto quando un sinistro della mia città mi disse: “Questo tizio di Alba ha scritto un libraccio che non leggerò mai! Ha fatto una carognata contro la Resistenza”. Era il giudizio velenoso stampato sull’Unità. La “mala azione” l’aveva rimproverata a Fenoglio un critico importante, Carlo Salinari.

Il direttore del quotidiano comunista, Davide Lajolo, arrivò a scrivere che Fenoglio vedeva la lotta partigiana “dall’altra sponda”, ossia dal punto di vista dei fascisti. E stampò la scomunica: “Falsa la realtà, sovverte i valori umani, distrugge l’onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto”. Oggi avrebbero dato a Fenoglio del revisionista.

Nel frattempo, ogni anno si festeggiava il 25 aprile. Il pubblico presente era sempre più rosso. Però l’Anpi si era già divisa ed erano nate altre due associazioni partigiane che rifiutavano di reggere il sacco al Pci. Una aveva per presidente Ferruccio Parri.

Il 25 aprile 1948, terzo anniversario della Liberazione, “Maurizio” venne fischiato dai comunisti che volevano impedirgli di parlare. E fu costretto a scendere dal palco. Riprese il discorso soltanto quando Luigi Longo lo scongiurò di farlo. Accadde a Parri quello che tanti anni dopo sarebbe accaduto a Letizia Moratti. Sempre a Milano, la piazza italiana più turbolenta.

I “Ventitrè giorni” di Fenoglio m’insegnarono che c’era un altro modo per far sapere quanto era accaduto durante la Resistenza. Con la voracità degli adolescenti, mi gettai a leggere tutto ciò che trovavo sulla nostra guerra interna. Leggevo e pensavo, con arroganza: un giorno scriverò anch’io qualcosa su quel tempo.

L’occasione si presentò nel 1955, quando avevo vent’anni. La Provincia di Alessandria bandì un concorso per una monografia sulla Resistenza nella nostra zona. Decisi di partecipare, lavorai con l’energia folle dei giovani, non riuscii a completare il lavoro, ma vinsi lo stesso un premio. Non sarò mai abbastanza grato a quella giuria. E al presidente della Provincia, Giovanni Sisto, un democristiano, partigiano bianco chiamato Tristano.

La monografia per il concorso di Alessandria fu il nocciolo della tesi di laurea a Torino. Ottocento pagine, più duecento di appendice documentaria, tre anni di lavoro, dal 1956 al luglio 1959. Mentre stavo per laurearmi, andai a Genova ad ascoltare un convegno sulla storiografia della Resistenza, il 24 maggio 1959.

Uno dei relatori era Roberto Battaglia, autore di un libro cult per la mia generazione. Con la protervia dei 23 anni dissi che tutte le storie generali della Resistenza, compresa la sua, bisognava riscriverle. E che occorreva studiare pure la Repubblica sociale.

Qualcuno mi accusò di essere un giovane fascista. Ma Parri, presidente del convegno, mi donò una borsa di studio: venticinque mila lire.

Nel 1965, ecco un altro 25 aprile. Lo festeggiai pubblicando con l’Istituto della Resistenza di Torino una guida bibliografica sulla guerra partigiana in Piemonte. Un lavoro fatto tutto da solo: 330 pagine, con 1984 schede commentate. Due anni dopo, Laterza stampò la mia tesi di laurea: “Guerra partigiana tra Genova e il Po”. Nell’estate del 1968 scrissi: “L’Esercito di Salò”, un libro sul riarmo della Rsi, poi pubblicato dalla Mondadori. Tralascio i tanti articoli e i saggi.

Ho ricordato queste mie feste del 25 aprile per arrivare al chiodo di un problema che non riguarda soltanto me. La questione ha più di un aspetto. Il primo è il bigottismo dell’antifascismo rosso. Nel corso degli anni l’ho visto diventare la religione di una setta. Che non ammette devianti, neppure in casa propria.

Nel 1991 Claudio Pavone, storico di sinistra, pubblicò il suo libro più importante: “Una guerra civile”. Mi chiese di presentarlo con lui in due città di sinistra: Siena e Alessandria. In entrambi i posti trovammo un pubblico di ex partigiani incavolati. Non si doveva parlare, mai e poi mai, di guerra civile! Ma soltanto di Resistenza e di guerra di liberazione.

Il secondo aspetto è l’ignoranza intollerante dei bigotti rossi. Quando appare un mio libro revisionista, insorgono urlando che non scrivo mai del contesto. Ossia dell’asprezza della guerra interna, madre di tutte le vendette. Non sanno nulla di quello che ho pubblicato, leggono soltanto i libri che li consolano. E mi considerano un alieno piovuto da Marte per diffamare i partigiani e guadagnarci dei soldi.

Tuttavia i bigotti stanno perdendo. Resistono nelle feste ufficiali per il 25 aprile, ma non dentro l’opinione pubblica. E non si rendono conto che si sono fatte largo molte verità. Loro non vogliono udirle. Si tappano le orecchie, come bambini. Per non mettere in discussione quello che hanno sempre pensato.

Festeggio il 25 aprile 2009 ricordando alcune di queste verità. Fra il 1943 e il 1945 non è esistito un “popolo alla macchia”, per citare un vecchio libro bugiardo di Longo. La zona grigia, quella descritta da Renzo De Felice, quella dei civili che aspettavano la fine della guerra senza schierarsi, era vastissima. A combattersi furono due minoranze. E i giovani schierati con la Rsi erano ben più numerosi dei partigiani. Com’era fatale dopo il ventennio fascista.

La Resistenza è stata una grande prova di dignità nazionale. Ma non era un mondo compatto. I resistenti proponevano obiettivi opposti. L’asse portante della guerra partigiana, le formazioni comuniste, volevano conquistare il potere e fare dell’Italia un paese satellite dell’Unione Sovietica: un’Ungheria del Mediterraneo.

Lo stesso Togliatti si trovò in difficoltà, davanti ai progetti insurrezionali del suo gruppo dirigente e di gran parte della propria base militante. Fra il 1946 e il 1947 ci mise sei mesi per rimuovere il federale di Reggio Emilia che copriva gli Squadroni della morte. E la seconda guerra civile, con la caccia agli antifascisti che si opponevano al Pci, terminò soltanto il 18 aprile 1948, con la vittoria della Dc sul Fronte Popolare.

Non sentiremo dire questo dai palchi di oggi. La retorica, le furbizie dei politici di mezza tacca, l’opportunismo contrapposto dei vari schieramenti, produrranno altri banchi di nebbia spessa. Chi oserà andare contro verrà fischiato. Lo sarebbe anche Giorgio Napolitano se ripetesse quanto disse il 15 maggio 2006, nel suo primo messaggio al Parlamento da presidente della Repubblica.

Vogliamo riascoltarlo? “Ci si può ormai ritrovare, superando vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni”. Tre parole micidiali. Tre titoli per almeno tre libri revisionisti. Mi auguro che al Quirinale non le abbiano dimenticate”.

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3 Responses to "I miei 25 aprile e quelli dei bigotti rossi"

  • ruys says:
  • camelot says:
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