Fossi un berlusconiano non esulterei per l’eventuale addio di Fini

Eccoci qua ad affrontare il redde rationem tra i due capi del Pdl; un regolamento di conti che, ne siamo certi, renderà euforici i molti – troppi – fessi che gravitano nell’orbita del centrodestra: a cominciare da Valium Feltri, il “direttorissimo” de Il Giornale che, negli ultimi mesi, non ha perso occasione per prendere a manganellate – un giorno sì e l’altro pure – il Presidente della Camera. D’altra parte, bisogna comprenderlo: il “Grande Orobico” di politica capisce meno di niente (grossomodo quanto la Binetti di pompini con risucchio); quindi, a suo giudizio, attaccare Fini era ed è cosa buona e giusta, in quanto utile alla stabilità dell’esecutivo in carica, e non invece una sesquipedale minchiata (come proveremo a spiegare nel prosieguo del post).

E allora veniamo al dunque, affrontando di petto questo tema “amaro”: Fini e Berlusconi s’apprestano a divorziare (anche se qui si “prega” affinché ciò non avvenga); lo fanno per le mille – e più – ragioni di astio reciproco che sono venute a maturazione negli ultimi anni; lo fanno perché mal si sopportano; lo fanno anche perché l’ex leader di An pensava – e legittimamente sperava – di poter succedere a Silvio, ma questi gli ha preferito – ormai pare deciso – il socialista di Dio sponsorizzato dalla Lega, Giulio Tremonti; s’apprestano a rompere il “matrimonio d’interessi”, i due, perché Berlusconi è ostaggio dei diktat e dei desiderata della Lega, e, poco e male, si cura degli interessi elettorali del partito che guida, il Popolo della Libertà; i due, infine, s’avviano alla separazione perché Berlusconi negli ultimi anni ha dismesso i panni del vessillifero della “Rivoluzione Liberale”, per indossare quelli molto più modesti – e tristi – del neodemocristiano, di chi, per dirla con Andreotti, preferisce “tirare a campare che tirare le cuoia”; e dunque poco – o punto – se ne fotte di modernizzare il Paese onde evitare ch’esso sprofondi come il Titanic; gli è sufficiente “galleggiare”, pur di restare in sella.

Fini, all’opposto, prima ha percorso un cammino che lo ha portato ad uscire dall’umida e fetida ridotta in cui era costretta la classe dirigente del Mis; e poi ha deciso di imprimere una svolta autenticamente europea – e perciò molto spesso contestata – ad una destra, quella di An, che ancora mostrava in bella vista il cordone ombelicale che la legava, dal punto di vista culturale e politico-programmatico, a quell’aborto di partito che era stato il Movimento Sociale Italiano: “Il M.S.I non è un partito di destra perché respinge il principio individualista e quindi l’economia liberale che ne è la estrinsecazione”; “Il M.S.I non è un partito di sinistra, perché respinge il principio collettivista e quindi l’economia statizzata che ne è l’espressione”; “Il M.S.I. non è infine un partito di centro perché non nutre l’illusione di conciliare gli opposti principi dell’economia liberale e dell’economia collettivista”, Gli obbiettivi sociali del Msi, 1949 (Le origini del M.S.I., Giuliana de’ Medici, Edizioni Isc – Roma; da pagina 174 a 175).

Strada facendo Fini ha abbracciato, su alcuni temi troppo moderatamente (ad avviso del sottoscritto), il liberal-conservatorismo di stampo europeo (che nulla ha a che spartire con il tradizionalismo vandeano, o demaistriano che dir si voglia); finendo così per essere il politico moderato italiano più in sintonia con i postulati e le politiche del Ppe: trovare differenze sostanziali tra quanto egli asserisce e ciò che sostengono Cameron, Sarkozy, Merkel, Aznar o lo stesso Mariano Rajoy (il cattolicissimo leader del Partido Popular spagnolo), infatti, è difficile, se non impossibile; anche se la più parte dei suoi detrattori non lo sa, o finge di non saperlo, e perciò gli rimprovera ognora d’essere un “destro anomalo”; non avendo palle a sufficienza per rimproverargli – apertis verbis – ciò che in realtà vorrebbe: il fatto ch’egli non sia più un fascista (perché, a conti fatti, questo si rimprovera a Fini, anche se pochi hanno il coraggio di dirlo apertamente; e coloro che non hanno gli attributi per farlo, guarda caso, sono gli stessi che grazie a Fini hanno fatto carriera; sono finiti nel Cda della Rai; o hanno accettato la “svolta di Fiuggi” solo per opportunismo e carrierismo, leggasi Francesco Storace, fingendo di non aver udito la chiarissima condanna del Fascismo che in quella sede congressuale venne da tutti pronunciata e accettata, e che provocò, non a caso, la fuoriuscita di Pino Rauti; ch’ebbe a congedarsi con tali dignitosissime parole: “E’ come se mi si chiedesse di diventare buddista. Io resto Cattolico, Apostolico e Romano”).

Il Fini di oggi ha molto in comune con il Berlusconi della “discesa in campo”, quello del ‘94. Il Berlusconi di oggi, invece, poco o punto ha a che vedere con il sé stesso degli albori di Forza Italia e della Casa della Libertà. Ed è per questo che la mia modesta riflessione, come si può evincere dal titolo del post, vuole essere indirizzata prioritariamente ai “berlusconiani veri”, a quelli che alla “Rivoluzione liberale” hanno creduto per davvero; a quelli che sognavano – e continuano a sognare – uno stato meno invasivo, in ogni ambito; a quelli che si dicevano e continuano a dirsi berlusconiani, perché definirsi tali equivale – oggi come ieri – a qualificarsi quali liberali tout court.

Cosa sarebbe il Popolo della Libertà senza Gianfranco Fini? Un partito inclusivo e capace di offrire “riparo” dignitoso e paritario a laici e cattolici; o un monolite cattolicista, talebano, clericale e confessionale, ove i laici – o i non-credenti – non avrebbero agibilità alcuna?

Ce la ricordiamo la vicenda di Eluana Englaro? Il decreto legge governativo per stoppare la decisione del tribunale?

Ecco, in quell’occasione, senza il punto di vista e i distinguo di Fini – perfettamente in sintonia non solo con i sentimenti della maggioranza degli italiani, ma finanche con quelli della stragrande maggioranza degli elettori del Pdl e del centrodestra -, quale immagine di sé avrebbe dato, il Popolo della Libertà? Quanto avrebbe rispettato le posizioni del proprio elettorato, in larga parte schierato con Beppino (ed Eluana) Englaro?

Buona parte dei “berlusconiani veri”, in quell’occasione, era dalla parte di Gianfranco Fini. Lo abbiamo dimenticato? O meglio: lo avete dimenticato, cari berlusconiani della prima ora?

Parliamo di testamento biologico e delle impuntature del Presidente della Camera.

Cari berlusconiani – laici, liberali e liberisti – vi è chiaro che se Fini non avesse alzato la voce e contestato il provvedimento legislativo sul “fine vita” – dettato dalle Cei e materialmente redatto dell’esponente dell’Opus Dei, Raffaele Calabrò -, esso, forse, sarebbe legge della Repubblica, oggi? Ne sareste felici?

Permettetemi di dubitarne; e al contempo permettetevi di ribadire che non ne sarebbe felice neppure la maggioranza degli italiani e degli elettori del Pdl (come si evince da ogni rilevazione demoscopica disponibile).

Ancora.

Cari berlusconiani – laici, liberali e liberisti – rimembrate che è stato Fini, attraverso un proprio uomo, Mario Baldassarri, a presentare la contro-Finanziaria per ridurre le tasse e tagliare la spesa pubblica? (leggere anche qui, qui e qui). Ricordate come ebbe a qualificare i tagli proposti, l’ex forzista Giulio Tremonti? No? Ve lo ricordo io: “Macelleria sociale”; proprio come li avrebbe definiti Fausto Bertinotti (di esempi se ne potrebbero fare tanti altri ancora; così come, per onestà intellettuale, ci si potrebbe soffermare sugli innumerevoli errori tattici e di comunicazione di Fini. Uno fra tutti: fissarsi ossessivamente sul tema della cittadinanza agli extracomunitari. Di sicuro una questione “indigeribile” per molti elettori del centrodestra).

Le questioni, allora, sono queste: quanto sarebbe ancora “commestibile”, per i berlusconiani veri, un Popolo della Libertà che non avesse più al proprio interno l’ultimo depositario (?) del Verbo berlusconiano dei primordi, il laico e liberale Gianfranco Fini?

Quanto si riconoscerebbe ancora, in tale partito, la maggioranza dei suoi attuali elettori?

Quanto assomiglierebbe ancora ad un partito di centrodestra di stampo europeo un Pdl nel quale non si parlasse più, almeno ogni tanto, di crescita economica, riduzione delle tasse e della spesa pubblica, e di modernizzazione del Paese; e invece si affermasse soltanto, come più volte ha fatto Tremonti (ad esempio in questo video recente), che “bisogna abbandonare l’ossessione della crescita”, che vuol dire postulare che i giovani possono anche andarsene a fare in culo, così come altrettanto possono fare gli attuali disoccupati (ché l’ossessione della crescita, in ultima istanza, è l’ossessione – cattolicissima, cristianissima e caritatevole – di chi vuole aiutare i “veri ultimi”: quelli che non hanno di che vivere e mangiare; quelli che sono in mezzo ad una strada, e che quivi rimarranno a lungo se il Paese non produce di più)?

Il Pdl, ora come ora, è un partito di centro; se non addirittura di centrosinistra moderato (lo abbiamo detto mille – e più – volte; è inutile ribadirlo).

Se uscisse Fini, quale ulteriore involuzione esso subirebbe? Finiremmo tutti per diventare turiferari di Marx, come Tremonti? (“Magari la gente leggesse Marx. È un genio”).

Prospettiva allettante, non c‘è che dire.

(Continua).

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15 Responses to "Fossi un berlusconiano non esulterei per l’eventuale addio di Fini"

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