Lug 10
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Dell’Utri, molti dubbi ed una sola certezza
Francamente, faccio fatica a comprendere come tante persone possano avere una opinione chiara e certezze in merito alla condanna inflitta a Marcello Dell’Utri dai giudici della Corte d’Appello di Palermo. Faccio fatica a comprenderlo, perché la sentenza emessa dai togati di secondo grado non spazza via i dubbi esistenti attorno alla vicenda processuale in esame.
In tal senso è emblematico quanto ha riferito ieri Gianluigi Nuzzi: il collegio giudicante, a quanto pare, non aveva una posizione unica e concorde su Dell’Utri. Dei tre magistrati che ne facevano parte, infatti, uno era orientato a chiedere la completa assoluzione dell’imputato; un secondo era assolutamente convinto della colpevolezza dello stesso; ed un terzo si è accodato al giudizio del collega “colpevolista”. Non a caso, i tre togati sono stati riuniti in camera di consiglio per lungo tempo, prima di emettere il verdetto. Questo deve far riflettere.
In secondo luogo, il fatto che Dell’Utri sia stato prosciolto con “formula piena” (cioè per non aver commesso il fatto) dalle accuse più pesanti mosse a suo carico – quella di aver avuto un ruolo nelle stragi di Mafia del ‘92-’93, e quella di aver contribuito a fondare Forza Italia a seguito di un accordo con Cosa Nostra – è quantomeno singolare, visto che è stato comunque condannato a 7 anni di reclusione per “concorso esterno in associazione mafiosa”.
È singolare, perché secondo i giudici dell’Appello il “sodalizio criminale” tra il senatore e Cosa Nostra si sarebbe interrotto poco prima ch’esso potesse tornare massimamente utile alla seconda: poco prima, cioè, che Dell’Utri mettesse piede in Parlamento, a seguito dell’avvento della Seconda Repubblica e di Forza Italia. È privo di logica.
È privo di logica pensare che Cosa Nostra, avendo in pugno Dell’Utri (stando alla sentenza), abbia deciso d’interrompere i rapporti con lui nel ‘92; e quando lo stesso è sceso nell’agone politico (nel ’94), non abbia cercato in qualche modo di ricostruire quel legame, onde usarlo a proprio vantaggio nel momento in cui esso poteva essere più fruttuoso.
Allo stesso modo, una fitta coltre d’incertezza e indeterminazione avvolge il capo d’imputazione per cui Dell’Utri è stato condannato: il concorso esterno in associazione mafiosa, infatti, non è fattispecie prevista dal nostro codice penale. È reato introdotto dalla giurisprudenza e mai “tipizzato” dal Legislatore. Dunque non è dato individuarne i confini e stabilirne precisamente il contenuto, allo stato dell‘arte: in cosa consista esattamente il concorso esterno in associazione mafiosa, non è dato sapere. Può esservi ricompresa qualunque condotta: anche quella che non integri la commissione di un reato, ma l’averne subito uno, esserne vittima. E qui veniamo all’altra questione controversa.
Dell’Utri, infatti, è stato condannato per il reato succitato anche perché, dopo aver subito minacce e richieste estorsive, avrebbe versato il pizzo alla Mafia per i magazzini della Standa presenti in Sicilia e per i “ripetitori“ della Fininvest; tutta roba di cui all’epoca dei fatti si occupava in qualità di dirigente locale del Biscione. Anche in questo modo, secondo i giudici, avrebbe aiutato la Mafia:
“Alcuni cardini della sentenza di primo grado come il pizzo per le antenne, e cioè il versamento di somme della Fininvest a Cosa Nostra nel 1986 per la messa a posto per i ripetitori nel palermitano che sarebbe avvenuto grazie all’intermediazione di Dell’Utri, e l’attentato alla Standa di Catania, altro episodio in cui il senatore avrebbe fatto da tramite per fermare gli episodi intimidatori”.
Vien da chiedersi: subire una richiesta estorsiva e versare il pizzo equivale ad essere un appartenente alla Mafia? Alzare le mani dinanzi ad un malvivente che urli “O la borsa o la vita” impugnando una pistola, e dargli il portafogli: equivale ad essere suo fiancheggiatore, nonché correo della rapina a mano armata di cui si è vittima?
È difficile da accettare: dal punto di vista logico, innanzitutto.
Allo stesso tempo, vien difficile condividere le certezze – eguali e contrarie a quelle dei mozzorecchi nostrani – espresse nelle ultime ore da taluni esponenti del centrodestra; e secondo cui Dell’Utri, senza tema di smentita, è soltanto vittima di una macchinazione giudiziaria ordita ai suoi danni; o, nella migliore delle ipotesi, di una giustizia che vorrebbe trasformare in reato ciò che al massimo è un peccato veniale, e cioè il fatto che il senatore siciliano abbia conosciuto – e magari frequentato occasionalmente – taluni personaggi “equivoci”, riconducibili a vario titolo alla criminalità organizzata (cosa che, tra l’altro, può capitare a chiunque nasca e viva nel Meridione).
È difficile condividere tali granitiche certezze, perché il dispositivo della sentenza di secondo grado, ad eccezione dell’accusa di aver “ordinato” le stragi di Mafia, “conferma nel resto l’appellata sentenza“; conferma, cioè, la condanna di Dell‘Utri per tutti i fatti ch‘erano stati già sanzionati dalla sentenza di primo grado. E tra questi fatti, ovvero tra gli episodi che ad avviso dei giudici evidenziavano chiaramente un rapporto di collaborazione tra il senatore e Cosa Nostra, ve n’è uno, almeno, che gela il sangue; anche perché chiama in causa Berlusconi (la cui posizione giudiziaria, però, giova ricordare, fu chiarita nel 1998 con una archiviazione).
Ed è quello che riguarda un incontro avvenuto nella sede di una società berlusconiana, la Edilnord, e che vide quali protagonisti Dell’Utri e i boss Stefano Bontade e Mimmo Teresi. Incontro nel corso del quale venne deciso di reclutare Mangano (per proteggere i figli di Berlusconi), onde: “Assicurare protezione contro l’escalation dei sequestri a Milano”.
Ciò che lascia basiti, non è tanto – o solo – l’assunzione di Mangano (dettata da esigenze “emergenziali“ ed “eccezionali“: il rischio, come già detto, che i figli del Cav. potessero essere rapiti); quanto il fatto che la decisione di reclutarlo sia stata presa nel corso di una riunione cui partecipavano boss della Mafia; la cui identità, con ogni probabilità, era nota a Dell’Utri. Questo getta ombre inquietanti sul parlamentare siciliano. Questo fa raggelare il sangue. Questo non può essere ignorato.
Ciò detto, la Costituzione, al secondo comma dell’articolo 27, statuisce: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (cioè sino alla sentenza della Cassazione). E questo deve valere anche per dell’Utri.
E tuttavia, data la gravità degli addebiti piovutigli sul capo, e per di più in due gradi di giudizio, opportunità politica imporrebbe che si dimettesse dal Senato.
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