Nov 10
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Se questo paese non si fosse ridotto ad essere lo spettro di se stesso; se non avesse perso a tal punto la voglia di vivere da mostrarsi del tutto indifferente a quanto gli capita; se non fosse attraversato da un inspiegabile quanto folle cupio dissolvi e non avesse deciso di mettere al bando la parola futuro; se non si fosse rassegnato ad essere rappresentato – all’estero – come un vespasiano a cielo aperto, e pure in rovina (o in alternativa come un lupanare malfamato), finendo – per di più – per riconoscervisi; se avesse ancora un ceto politico degno di questo nome e lungimirante; se ancora fosse culla di cultura e pensiero; se avesse degli intellettuali capaci di guardare appena un po’ più in là del proprio ombelico o del proprio Ego; ecco, se l’Italia fosse ancora quel paese che è riuscito, a più riprese, a “colonizzare” e civilizzare il mondo intero ridisegnandolo a propria immagine e somiglianza, sol perché si sentiva unito ed uno ed era perciò invincibile, alta e forte si leverebbe una richiesta indirizzata a Silvio Berlusconi, in questo istante, e a pronunciarla sarebbero innanzitutto coloro che gli sono più vicini, politicamente e umanamente: si dimetta, Presidente, e consenta al Paese di andare avanti e di costruire il proprio futuro senza di lei; che è diventato un impaccio.
E invece niente: la politica ridotta a rissa continua, a lotta tra fazioni cieche e rancorose, a guerra di religione tra sette, seguita a scandire slogan bellicosi e a spargere fango e veleni; impedendo alla Nazione di uscire dal tunnel e d’imboccare una strada diversa, e magari in discesa.
E così ci tocca contare le ore che ci separano da quel fatidico 14 dicembre: il giorno dell’Apocalissi. Quello in cui Berlusconi si troverà a fronteggiare i propri nemici, che, ça va sans dire, lo sono anche del Popolo sovrano: la Consulta, i poteri forti, i politicanti del Palazzo; le cancellerie di mezzo mondo che lo avversano perché non è funzionale ai loro interessi, e perciò vogliono disarcionarlo; i soliti complottardi demoplutogiudaicomassonici (spalleggiati, questa volta, anche dalle lobby gay e da quelle dei cacciatori di frodo) che vogliono abbattere l’Italia per spartirsene i tesori.
Ecco, sospesi, in attesa: così viviamo. Con la certezza, però, e questo è il dramma, che se anche Silvio dovesse riuscire a superare indenne le Forche Caudine che l’attendono, il giorno dopo nulla cambierebbe per il Paese: non una riforma economica seria e strutturale; non una misura per rilanciarne l’economia e favorirne l’occupazione. Ché se queste fossero le sue priorità, avrebbero già visto la luce in diecine di provvedimenti.
E intanto l’uomo comune inizia a perdere la pazienza: non ne può più, ne ha le palle piene.
E diventa pericoloso, perché non capisce. Non capisce perché l’unica strada possibile, quella maestra, non venga percorsa: perché Silvio si ostini a non volersi fare da parte.
Basterebbe questo, in fondo, e tutto cambierebbe, ora come ora.
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