Se Berlusconi non fa un passo indietro, il Paese resterà in una situazione di crisi, economica e politica, per anni
Le questioni sul tappeto sono due, e se non vengono risolte in questa legislatura rischiano d‘impantanare il Paese più di quanto non lo sia già, e per anni: la successione a Berlusconi e la crisi economica.
E l’una e l’altra richiedono coraggio, senso di responsabilità e lungimiranza. E l’una e l’altra, per essere affrontate seriamente, richiedono un drastico cambio di rotta.
Partiamo dalla seconda questione: la crisi economica.
Sin qui il governo – per colpe che possono essere ascritte soltanto a Berlusconi, Bossi e Tremonti, i dominus assoluti del centrodestra -, s’è limitato ad adottare modeste misure di contenimento della spesa, onde “passà ‘a nuttata”, e s’è rifiutato di aggredire in modo definitivo i problemi che affliggono l’Italia: l’immenso debito pubblico e la scarsissima crescita economica. Queste due variabili stanno lentamente uccidendo l’Italia, e da anni, soffocandone ogni potenzialità e mettendo una pesante ipoteca sul futuro di milioni di giovani.
Con una scarsa crescita economica l’occupazione resta bassa. Con una scarsa crescita economica le imprese sono costrette ad assumere a tempo determinato. E per quest’ultima ragione, milioni di giovani sono condannati a vivere in condizioni di perpetuo precariato.
Quest’ultimo, infatti, non si combatte cancellando la legge Biagi, cosa che provocherebbe la disoccupazione di milioni di persone, ma dando benzina all’economia e facendola crescere ad un ritmo sostenuto ed in modo stabile. Solo così le imprese sarebbero incentivate a “trasformare” i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.
Gli imprenditori, infatti, non vivono alla giornata come tutti noi: essi pianificano strategie aziendali sulla base delle decisioni assunte dal potere politico. Hanno “aspettative razionali”.
Se chi governa non adotta misure volte ad espandere l’economia e a creare prospettive positive per il futuro, chi fa impresa non s’assume l’onere di stabilizzare i lavoratori precari: se lo facesse andrebbe incontro al rischio di non riuscire a coprire i costi con i ricavi. Un suicidio per un imprenditore. Un suicidio che potrebbe significare il licenziamento di lavoratori o la chiusura dell’azienda.
Chi non si preoccupa di far crescere l’economia a saggi elevati, dunque, dimostra di fottersene – innanzitutto – dei lavoratori precari e dei disoccupati; e, in ultima istanza, dei giovani.
Il problema della bassa crescita, l’Italia se lo porta dietro da anni: da oltre un decennio il nostro Pil ha un andamento inferiore a quello di qualunque altra nazione europea; e dal ‘92-’93 cresciamo molto meno di quanto accadesse, ad esempio, negli anni ‘80. L’Italia è in declino da troppo tempo; siamo un paese ridotto allo stremo. Da anni non si fa altro che parlare di proletarizzazione del ceto medio e di generale impoverimento della popolazione: e non si tratta di leggende metropolitane, ahinoi, ma di cruda realtà.
La responsabilità di tutto ciò è solo e soltanto del nostro ceto politico, tutto: quello di sinistra ha stuprato fiscalmente i cittadini, ogni volta che è arrivato al potere, riducendo ancor più in miseria il Paese; quello di destra, invece, non è riuscito a ridimensionare il peso dello stato; ed anzi, come evidenziano i dati dell’Istat (oramai certi), ne ha accresciuto la preponderanza (bruciando, tra l’altro, finanche il “tesoretto” che eravamo riusciti a guadagnare con l’ingresso nell’euro).
Dal 2000 al 2008, infatti, ogni volta che il centrodestra ha governato è peggiorato l’avanzo primario e sono aumentati la spesa pubblica corrente ed il debito.
Questo a riprova del fatto che la coalizione berlusconiana – e la colpa è di tutti, beninteso: di Fini e Bossi; di Berlusconi, Tremonti e Casini – non è una coalizione liberale e di centrodestra. Non lo è mai stata. È null’altro che una coalizione di centrosinistra moderato con posizioni vandeane sui temi eticamente sensibili. Ed il fatto che nessuno dica queste ovvietà sulla carta stampata, rivela quanto modesto sia anche il ceto giornalistico (che, se non fosse per i soldi che riesce ad estorcere ai contribuenti – nella forma dei contributi diretti o indiretti all’editoria -, finirebbe in mezzo ad una strada a chiedere l’elemosina. Tutto).
Ciò detto, la crisi economica, come noto, ha contratto (nel 2009) il nostro Pil di oltre 5 punti percentuali. Le previsioni per gli anni a venire, inoltre, stimano una crescita dello stesso non superiore all’1,5%. Di questo passo, quindi, noi si riuscirà a ritornare ai livelli pre-crisi tra 7-8 anni; e centinaia di migliaia di nostri connazionali resteranno a lungo disoccupati.
Per scongiurare queste eventualità, abbiano due sole possibilità praticabili: ridurre il debito, mediante consistenti privatizzazioni, e liberalizzare a piene mani. Precisamente ciò che il governo sin qui non ha fatto (disattendendo, tra l’altro, le promesse elettorali); precisamente ciò che il governo – nonostante una furbesca e truffaldina apertura di Berlusconi (“terremo anche conto dei suggerimenti e delle proposte di tutti, comprese quelle del Partito Liberale in ordine alle privatizzazioni“) – non farà sino a quando resterà in carica. In più, giova sempre ricordare, il varo del tanto decantato Federalismo fiscale comporterà un esborso di svariati miliardi di euro (forse addirittura 100) e farà aumentare la pressione fiscale locale nei 2/3 della Penisola.
A questo punto cosa ci si può augurare? Che rimanga in carica l’attuale esecutivo? Lo stesso che nell’ultimo anno, a dispetto della fama di “governo del fare”, è riuscito a licenziare, per propria incapacità, soltanto 10 leggi?
Penso proprio di no. Non possiamo permettercelo.
L’optimum sarebbe un governo tecnico, come già detto altrove. Ma è un’ipotesi – pare – tramontata. Purtroppo.
Resta da giocare la carta di un nuovo esecutivo di centrodestra con un premier diverso dal Cavaliere, allargato all’Udc, e con un programma di governo che metta al centro il rilancio dell’economia (come chiesto da Fini e Casini).
È una strada percorribile, e tutto sommato nemmeno tanto traumatica; e, oltretutto, fornirebbe la possibilità, e qui veniamo alla seconda questione cui si è accennato all’inizio del post, di affrontare in questa legislatura la madre di tutte le questioni: la successione a Berlusconi. Perché questo è il fattore che rischia di far deflagrare definitivamente il centrodestra. E prima lo si risolve e meglio è.
I pretendenti al trono, infatti, scalpitano. E non hanno più intenzione di restare in panchina. Parliamo di Tremonti e Formigoni (oltreché di Fini).
Ciascuno di essi pensa di aver diritto di succedere a Silvio. Ciascuno di essi, qualora subodorasse di non poterne prendere il posto – e lo abbiamo già visto con Fini – farebbe il diavolo a quattro, e scatenerebbe contro di lui l’inferno.
Berlusconi lo sa, ma se ne impipa. Al futuro della sua coalizione non pensa. Non lo fa perché non ha alcuna intenzione di mollare la cadrega; non prima, quantomeno, d’aver risolto ogni sua grana giudiziaria (e lo sappiamo tutti). E così facendo, non definendo una road map per individuare il suo successore, alimenta tensioni su tensioni e soprattutto congiure.
Perché a boicottarlo, e questo deve essere chiaro a tutti, non ci si è messo solo Fini, ma anche Tremonti. Il quale, essendo intelligente e furbo come pochi, per intaccarne la popolarità ha impostato delle finanziarie appena sufficienti a fronteggiare la crisi. Non è stato casuale o soltanto dettato da ragioni politico-culturali (la sua avversione al mercato): Tremonti ha fatto il “minimo sindacale” perché sapeva che se accanto a misure volte a risanare i conti pubblici ci fossero stati anche interventi per rilanciare l’economia, a beneficiarne – in termini di consensi e d’immagine – sarebbe stato Silvio. E lui non poteva permetterselo: doveva logorarlo, annichilirlo, e nell’unico modo in cui gli fosse possibile (senza passare per congiurato). Ha agito con straordinaria e mefistofelica lucidità. Ed è riuscito a raggiungere lo scopo: se Berlusconi oggi si trova ad essere attaccato, non senza argomenti, per la politica del suo esecutivo, infatti, è perché il Paese economicamente non è sano; cresce poco e la disoccupazione inizia a raggiungere una soglia preoccupante (per non parlare della flessione consistente del Pdl nei sondaggi d’opinione, che testimonia quanto la strategia tremontiana produca risultati “positivi“ anche tra i cittadini).
Siamo in un cul de sac: o Berlusconi fa un passo indietro – e consente ad un nuovo esecutivo di occuparsi delle emergenze economiche del Paese, e al Pdl e al centrodestra di trovarsi un nuovo leader – o i problemi ce li trascineremo nella prossima legislatura. Con il rischio – certo – che si amplifichino ancor di più.
Solo Berlusconi può sciogliere questa matassa.
Dimettendosi.
P.S. Domani qui si farà un live-blogging per seguire le votazioni sulla fiducia.
Leggi altre news su per il Popolo delle Libertà.
ok, passo indietro, ma su che base? finché non viene sfiduciato il presidente è del tutto legittimato nelle sue funzioni.