Il caso Carmelo Canale

Ad Ilaria Cavo, che ne ha raccontato la storia nel libro Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia (Mondadori), ha dichiarato: «Vivere per tutto questo tempo con l’accusa di aver fatto parte di quella malavita dopo averla combattuta è stato come uccidermi. Non mi sono suicidato, come invece ha fatto mio cognato qualche anno prima, solo perché ho un carattere più duro, meno arrendevole e non volevo darla vinta a nessuno, tanto meno a chi mi aveva addirittura accusato di aver progettato, durante un pranzo con i mafiosi, proprio la morte di mio cognato e di un gruppo di carabinieri che stavano indagando contro le cosche. Con il peso di queste accuse non è che non abbia mai pensato di togliermi la vita: in questi quattordici anni, di fatto, io non ho vissuto». A parlare è Carmelo Canale: sessantadue anni, palermitano, tenente dei Carabinieri (all’epoca dei fatti maresciallo), dal 1986 al 1992 collaboratore e braccio destro di Paolo Borsellino.

Per quattordici anni, tanto durerà la sua vicenda giudiziaria prima di concludersi con un’assoluzione, Canale ha portato su di sé un marchio d’infamia: quello d’essere un «Giano bifronte», come è arrivato a definirlo il pubblico ministero Massimo Russo, al servizio e dello Stato e di Cosa Nostra; e perciò finito sotto accusa prima per concorso esterno in associazione mafiosa e poi per organica connivenza con la Mafia.

Tutto ha inizio nel 1996, con una sua deposizione dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia. A cui membri egli esterna i propri dubbi sulle modalità con cui si stava indagando sull’uccisione del giudice Borsellino; che, a suo avviso, era stato fatto fuori perché aveva individuato la causa dell’assassinio di Giovanni Falcone: «Sono sempre stato convinto che Borsellino sia stato ucciso per quell’indagine “mafia e appalti“» (Ibidem, 96) – l’indagine sui legami tra Cosa Nostra e il potere politico che Falcone stava conducendo prima d’essere giustiziato.

Poco tempo dopo quell’audizione spunta il primo pentito che lo accusa d’essere al soldo della Mafia. Poi ne spuntano altri cinque. Alla fine ne diventeranno venti.

Canale è accusato d’aver fatto favori a Cosa Nostra in cambio di danaro; che, a detta dei “picciotti”, egli avrebbe chiesto per far fronte alle spese mediche della figlia gravemente malata di tumore (un osteosarcoma che poi ne cagionerà la morte a soli quattordici anni); ma che, sempre ad avviso degli stessi, egli invece avrebbe impiegato per costruirsi una lussuosa villa con piscina e per condurre un tenore di vita molto elevato.

Di tutte queste accuse, alla fine, i giudici scriveranno: «La vox communis sul conto dell’imputato, tacciato di vicinanza agli interessi di Cosa Nostra e soprattutto di insaziabile avidità di denaro, se poteva valere come base dalla quale partire per un’indagine di tipo penale, in mancanza di riscontri specifici individualizzanti non basta a fondare un giudizio di colpevolezza basato su ben altre regole rispetto a quelle prospettate dal pm» (Ibidem, 104). Inoltre, «alla ridda di voci negative», che i giudici arriveranno a qualificare come «leggenda metropolitana» (Ibidem, 105), «si è contrapposta una messe di commenti positivi, sulla figura di Canale: non solo sulla sua abilità investigativa ma anche sulla sua integrità comportamentale ed etica, che fa da contraltare a quelle malevole dicerie» (Ibidem, 104).

Ma vediamole, queste «malevoli dicerie», e chi le ha pronunciate.

Giovanni Brusca è il primo a gettar fango su Canale. Sostiene che questi avrebbe fornito notizie riservate su alcune operazioni di polizia, oltreché informazioni concernenti le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia, al capo mandamento di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro; e in cambio avrebbe ricevuto soldi per costruirsi, sostiene sempre Brusca, una villa con piscina. Notizie completamente destituite di fondamento, come appureranno i giudici di primo e secondo grado.

Innanzitutto, perché Canale aveva avuto rapporti solo con uno dei tre pentiti tirati in ballo da Brusca, e prima che diventasse un collaboratore di giustizia: «Pensi che uno dei tre lo avevo indagato per droga negli anni Ottanta, ma non lo avevo mai gestito durante il suo pentimento»; cosa che il pubblico ministero avrebbe dovuto sapere, visto che lo aveva personalmente «gestito», e dunque «a lui non poteva non essere evidente come io non fossi in grado di riferire una sola parola delle dichiarazioni di quel pentito», afferma Canale alla giornalista Ilaria Cavo (Ibidem, 100).

In secondo luogo, perché tra le date dei due eventi citati c’era uno sfasamento temporale: la villa di cui parla Brusca era stata acquistata nel 1983, mentre la figlia di Canale si sarebbe ammalata soltanto dieci anni dopo. «Giovanni Brusca, che ha avuto il coraggio di uccidere un ragazzino di quattordici anni colpevole di essere il figlio di un pentito, ha continuato a coltivare la passione per la morte di bambini innocenti, coinvolgendo anche la mia Antonella nelle sue oltraggiose dichiarazioni» (Ibidem, 101); «Ho sentito dire che io mi sarei andato a divertire in Francia con i soldi intascati dalla mafia, mentre le amputavano una gamba e le asportavano un polmone. Anche questo ho dovuto sentire» (Ibidem, 101), aggiunge ancora Canale.

E pensare che l’insussistenza di queste accuse si sarebbe potuta accertare con estrema facilità già in fase di indagini preliminari. Tutte le spese sostenute dal tenente per curare la figlia in Francia, infatti, erano state rimborsate – come poi accerteranno i giudici – dal Servizio Sanitario Nazionale: «Ho chiesto che controllassero tutti i nostri conti, dal 1970 al 1996 e non soltanto quelli degli ultimi anni, perché ero sicuro della nostra trasparenza: mia moglie fa l’insegnante di ruolo, io sono entrato nell’Arma nel 1965. Il nostro tenore di vita era assolutamente proporzionato alle nostre disponibilità» (Ibidem, 102), dice ancora Canale.

Il che verrà accertato come veritiero dai giudici di primo e secondo grado. I quali, pur avendo appurato come talora i conti bancari di Canale finissero “in rosso”, alla fine arriveranno a sentenziare che: «Laddove la situazione era di difficoltà economica», lo stesso Canale «soleva provvedere attraverso il ricorso al credito, ricorso che non sarebbe stato necessario se davvero avesse potuto fruire di redditi occulti derivanti dalla corruzione» (Ibidem, 102). In ragione di ciò, essi aggiungeranno altresì: «È da scartare l’ingegnosa riflessione del pm circa l’abilità del Canale di occultare redditi di natura illecita» (Ibidem, 103); ipotesi, questa, frutto «dell’esasperazione a tutti i costi della tesi colpevolista» (Ibidem, 103).

Va anche aggiunto che la villa del tenente Canale, di cui poi anche altri pentiti avranno modo di parlare, lungi dall’essere qualcosa di sfarzoso – con la sua volumetria di 110 metri quadrati – «era risultata una delle tante abitazioni», scriveranno i giudici, «magari confortevoli, di cui sono possessori milioni di italiani» (Ibidem, 103); acquistata per di più quando era in disuso, e ristrutturata, tra l’altro solo in parte, grazie all’ausilio economico dei suoceri del tenente.

Quanto alla piscina, che un altro pentito, Gaspare Barraco, arriverà a sostenere essere di capienza tale da poter addirittura contenere un’imbarcazione in resina di sei metri – che sempre lo stesso dichiarerà d’aver fornito al Canale in cambio di altri favori resi da quest’ultimo a Cosa Nostra, e affinché la «ancorasse» (Ibidem, 109) nella summenzionata piscina -, per i giudici risulterà di «dimensioni contenute» (Ibidem, 103), «poco meno del doppio dell’imbarcazione» succitata (Ibidem, 109), «e ricavata da una preesistente cava a cielo aperto poi impermeabilizzata». Inoltre, e in considerazione anche del fatto che la villa distava otto chilometri dal mare, scriveranno ancora i magistrati assolvendo Canale, «non è da comprendere per quale ragione un’imbarcazione non certo minuscola avrebbe potuto stazionare in una piscina senza alcuna possibilità di prendere il largo vista anche la distanza dal mare e l’estrema difficoltà di trasporto» (Ibidem, 110).

Canale, poi, viene accusato da un altro pentito, Francesco Federico – già sottufficiale della polizia penitenziaria di Marsala, poi condannato per associazione mafiosa -, d’aver fatto visita nel carcere di Rebibbia ai fratelli mafiosi Salvo di Salemi. Ad accompagnarlo sarebbe stato, e su richiesta «imperiosa» del medesimo, lo stesso Federico, che, trovandosi in quel momento in vacanza con la moglie a Fiuggi, si sarebbe precipitato immediatamente a Marsala per soddisfarne la perentoria richiesta. Caustico il commento che i giudici riserveranno a tale episodio, pieno – a loro giudizio – di «connotazioni di fantasiosità tali da sfiorare il ridicolo» (Ibidem, 111).

E qui sta il bandolo di questa intricata vicenda giudiziaria durata ben quattordici anni. Se infatti il pubblico ministero Massimo Russo, sulla base delle testimonianze di alcuni “picciotti” pentiti, è arrivato addirittura a qualificare Canale come «un Giano bifronte che per anni aveva indossato la divisa di servitore dello Stato ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia» che «è diventata il mostro che è grazie ad individui abietti come lui» (Ibidem, 94), i giudici di primo e secondo grado arriveranno a valutare quelle stesse testimonianze come gravide di «genericità», «inverosimiglianza» e «illogicità» (Ibidem, 99); e, parlando dell’imputato, «mai un’eventuale eccessiva disinvoltura nel comportamento e nei metodi di indagine potrebbe integrare un giudizio di colpevolezza in termini di corruzione, reato necessariamente agganciato a condotte specifiche e ben individuate e individuabili» (Ibidem, 98).

E se il pm, inoltre, ha ritenuto di dover ricorrere contro la sentenza di proscioglimento di primo grado pronunciata in favore di Canale nel novembre del 2004, la Corte d’assise d’appello, nell’emettere una seconda sentenza di assoluzione il 17 luglio del 2008 (in base al secondo comma dell‘articolo 530 del codice penale), arriverà a definire assurdo che «l’appellante», cioè la pubblica accusa, «valorizzi solo ed esclusivamente gli elementi di accusa e i riscontri niente affatto certi gettando nella pattumiera come riflessioni superficiali (se non azzardate) le argomentazioni che il tribunale (in primo grado) ha svolto con estrema puntigliosità» (Ibidem, 111); aggiungendo anche che: «non c’è mai stato riscontro su alcuna condotta. Laddove le condotte erano riscontrabili la difesa ha fornito la prova contraria» (Ibidem, 111). E ancora: «Sorprende, soprattutto, che il pm appellante anziché evidenziare eventuali circostanze nuove, non valutate dal tribunale, si sforzi di ripetere le stesse argomentazioni che si caratterizzano soltanto per un’eccessiva laboriosità e tortuosità del ragionamento» (Ibidem, 111).

A pronunciare la parola fine e a prosciogliere definitivamente Carmelo Canale, penserà la Cassazione, il 9 luglio 2010, rigettando il ricorso presentato dalla Procura generale.

«La sezione esistente a Marsala, con l’esiguo numero di addetti e gli scarsi mezzi a disposizione, finirebbe per dover assolvere compiti decisamente marginali se non godesse delle eccezionali capacità e della preziosissima esperienza del responsabile dell’aliquota carabinieri, il maresciallo Carmelo Canale, il quale è invece riuscito a divenire l’insostituibile supporto di decine e decine di indagini, svolte tutte in clima di eccezionale collaborazione con lo scrivente e i suoi sostituti», “Relazione sul funzionamento dell’amministrazione della giustizia“, 1992, Paolo Borsellino (Ibidem, 112).

Pubblicato anche su Processo Mediatico.



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