La riforma delle pensioni sta alla patrimoniale come l’Immacolata Concezione alle orge di Silvio

Il pesce, come usa dire, puzza dalla testa. E a questa regola, purtroppo, non si sottrae nemmeno il nostro paese: la cui classe dirigente – la testa, appunto – non è meno fetidamente qualunquistica, socialmente irresponsabile e macreoconomicamente analfabeta della restante parte della popolazione.

Si prenda Luigi Abete, ex capo di Confindustria.

Ieri, ospite di Ballarò, ad un certo punto ha detto, in buona sostanza, che nel nostro paese è inimmaginabile poter innalzare l’età pensionabile senza che a questa misura segua l’introduzione di una patrimoniale. Quasi come se l’adeguamento dell’età previdenziale agli standard europei integrasse un provvedimento contro i cosiddetti poveri a cui, per compensazione, si dovesse far seguire un provvedimento contro i cosiddetti ricchi. Una sesquipedale minchiata.

Iniziamo col dire che, se si dovesse varare un’imposta patrimoniale, come ben ha evidenziato Carlo Stagnaro su Chicago Blog, gli effetti che ne deriverebbero sarebbero tutti e solo negativi: meno consumi, risparmio ed investimenti; minore crescita del Pil; calo del gettito fiscale; peggioramento del deficit pubblico; aumento della disoccupazione. Una patrimoniale, d’altra parte, è come qualunque altra tassa: nuoce gravemente alla salute economica di una nazione, ma su questo tema ritorneremo nei prossimi giorni, e fa perdere il posto di lavoro innanzitutto ai precari.

Posto questo, si fa fatica a comprendere quale nesso esista tra un intervento altamente recessivo, quale quello appena indicato, e la riforma del sistema previdenziale. Anche perché, non dimentichiamolo mai, se oggi si parla nuovamente di questa riforma è solo perché, nella scorsa legislatura, Bersani, Vendola (per interposta persona) e Di Pietro hanno abolito il cosiddetto “scalone” per consentire a milioni di italiani di andare in pensione in età pre-adolescenziale: a 58 anni. Operazione questa, giova ancora ricordare, che è costata al contribuente 10 miliardi di euro (1/5 del valore della manovra attualmente in corso d’approvazione) parzialmente reperiti incrementando il prelievo contributivo a carico dei precari. Ovvero: inculando quest’ultimi. Solo per questa ragione, oggi si parla ancora di riforma delle pensioni. E solo per questa ragione, l’Europa ci chiede di farla.

Ciò detto, però, è bene evidenziare alcune aspetti della questione onde meglio definirne i contorni.

Innanzitutto, partiamo da un’ovvietà à la Max Catalano: in pensione non vanno solo i cosiddetti poveri, evidentemente, ma anche le persone agiate. Dunque l’innalzamento dell’età pensionabile riguarderebbe tutta intera la popolazione: dagli operai ai magistrati che guadagnano quanto i parlamentari; dagli insegnanti ai manager che introitano milioni di euro all’anno; dagli impiegati di banca ai ricchi commercianti; dagli artigiani ai docenti universitari che intascano 10.000 euro al mese per lavorare 3 ore al giorno.

In secondo luogo, e al contrario dell’imposta patrimoniale, l’innalzamento dell’età per accedere al rapporto di quiescenza produrrebbe solo effetti positivi; non solo per l’economia nazionale (in termini di tenuta dei consumi e del Pil), ma anche – e soprattutto – per i lavoratori. I quali, andando in pensione un po’ più tardi, potrebbero continuare a percepire una busta paga più sostanziosa (e di questi tempi fa comodo) e si troverebbero nella condizione di versare ulteriori contributi grazie ai quali, una volta andati in quiescenza, otterrebbero un vitalizio ben più robusto di quello cui avrebbero diritto se si mettessero a riposo un po’ prima. Trattasi di ulteriore ovvietà à la Max Catalano.

Veniamo, adesso, alle cose un po’ meno scontate. Partendo dalla seguente tabella che indica l’età media di pensionamento vigente nelle principali nazioni.

Com’è facile constatare, se si escludono la Francia ed il Belgio, l’Italia ha la più bassa età media di pensionamento al mondo: 61,1 anni per gli uomini; 58,7 anni per le donne.

Non solo.

Secondo le analisi statistiche dell’Ocse, noi italiani abbiamo “la vita pensionistica” più lunga. Ovvero: campiamo, stando a riposo, senza lavorare e percependo la pensione, più di quanto avvenga in qualunque altro paese al mondo. Più precisamente: 27,3 anni per le femminucce e 22,7 anni per i maschietti. Contro, ad esempio, i 26,5 anni delle francesi e i 21,8 anni dei loro concittadini; o contro i 20,7 anni delle culone inchiavabili, ovvero le tedesche, e i 17 anni dei loro compatrioti. E tutto questo si spiega col fatto che da noi si vada prestissimo in pensione, prima che in qualunque altra nazione, e si abbia, per di più, una speranza di vita alla nascita (età media) tra le più elevate: 78,4 anni per gli uomini e 84 anni per le donne. Da questi numeri non si può prescindere.

In ultimo. L’Italia ha un tasso di fertilità femminile che è tra i più bassi dell’area Ocse. Esso è pari a 1,4: cioè ogni donna mette al mondo in media 1,4 figli (ben al di sotto del tasso di sostituzione pari a 2).

Ora, siccome abbiamo un sistema previdenziale cosiddetto a ripartizione, per cui quelli che lavorano (i giovani) pagano la pensione a quelli che sono a riposo (l’ho detta in modo molto dozzinale); e visto che si figlia poco, mentre chi è in pensione campa sempre di più, l’equilibrio si può avere solo in due modi: innalzando ora l’età pensionabile ai paparini e alle mammine d’Italia, oppure obbligando i loro figli a lavorare tutta la vita per pagargli la pensione.

Alternativa non c’è.

Tutto ciò posto, non esiste, per le ragioni qui esposte, alcun nesso logico tra la riforma delle pensioni e la cosiddetta patrimoniale: la prima è indispensabile se non si vuole stuprare il futuro delle giovani generazioni; la seconda, al contrario, è utile solo se si desidera che il Paese entri in recessione.

Per la gioia dei precari che sarebbero i primi a pagarne le conseguenze perdendo il lavoro.



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18 Responses to "La riforma delle pensioni sta alla patrimoniale come l’Immacolata Concezione alle orge di Silvio"

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