Set 11
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Era nell’aria da giorni e ieri notte è accaduto: Standard & Poor’s ha declassato il debito dell’Italia.
A fondamento di tale decisione, la pessima politica economica – e recessiva – dell’esecutivo in carica; l’impossibilità che la stessa possa garantire uno stimolo incisivo alla crescita economica dell’Italia e, per questo tramite, la sostenibilità del suo debito:
“(…) Il governo prevede che il programma di consolidamento fiscale comporterà un consolidamento fiscale cumulativo pari a circa, complessivamente, Euro 60 miliardi, rimandando i maggiori tagli al 2012 e al 2013
Riteniamo, tuttavia, che la proiezione del governo in termini di risparmi pari a Euro 60 miliardi potrebbe non essere realizzabile per tre motivi:
– in primo luogo, come descritto in seguito, riteniamo che le prospettive di crescita economica dell’Italia si stiano indebolendo;
– in secondo luogo, quasi due terzi dei tagli iscritti nel bilancio di previsione relativo al periodo, peraltro decisivo, 2011-2014 si basano su aumenti delle entrate in un Paese in cui il carico fiscale è già elevato; e,
– in terzo luogo, si prevede un aumento dei tassi di interesse.
Abbiamo rivisto lo scenario macroeconomico di base che riteniamo coerente con il downgrade e l’outlook negativo annunciati oggi. Rispetto allo scenario base di maggio 2011, lo scenario attuale ipotizza che la crescita annua del PIL, in termini reali, sarà di 0,6 punti percentuali più bassa della previsione per il 2011-14 a causa di un ulteriore rallentamento della crescita economica in termini di esportazioni, investimenti e consumi sia nel settore pubblico che in quello privato (…)”.
Che questo downgrade dovesse arrivare, era del tutto scontato: una manovra fatta per oltre il 60% di maggiori entrate (100 miliardi di nuove tasse), priva oltretutto di qualunque misura volta a stimolare la crescita (liberalizzazioni) e a ridurre lo stock di debito (privatizzazioni), solo ad una pletora di minus habens poteva sembrare adatta a raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Bce (il pareggio di bilancio nel 2013) e a metterci al riparo dalle turbolenze dei mercati. Peggio avrebbero potuto fare solo Vendola, Bersani e Di Pietro.
Preso atto di ciò, c’è da capire come il Paese possa uscire da questo drammatico frangente ed affrontare al più presto le riforme – innanzitutto di sistema – di cui ha un fottutissimo bisogno: ché la situazione è grave, e molto più di quanto la più parte di noi riesca a comprendere.
Berlusconi è, politicamente parlando, allo stato terminale, come il suo esecutivo. Difficilmente riuscirà ad arrivare a Natale: una parte della Lega, infatti, è intenzionata ad abbandonarlo entro novembre; e analogo proposito serpeggia anche nelle fila del Popolo della Libertà. Il problema, però, è che non possiamo attendere fino a novembre o dicembre: gli investitori esteri ci crocifiggerebbero.
Napolitano, che da inizio mandato ha ripetutamente violato la Carta e disatteso (addirittura più di Fini) la prassi istituzionale, potrebbe farlo, allora, una volta ancora e in questo caso, però, per un fine nobile: togliere il Paese dagli impicci e garantire il varo di misure non più procrastinabili.
Nello specifico, e sia pur agendo prevalentemente attraverso canali diplomatici e meccanismi di moral suasion, e giammai attraverso un discorso alle Camere (sarebbe un putsch), il Capo dello Stato potrebbe sollecitare Berlusconi ad abbandonare Palazzo Chigi; garantendogli, però, due cose: 1) il nuovo premier sarebbe Alfano, o chiunque egli reputasse adatto a sostituirlo; 2) il Parlamento affronterebbe in tempi brevi l’esame e l’approvazione di un salvacondotto per mettere una lapide sulle grane giudiziarie che lo affliggono.
Fatto questo, egli potrebbe dare vita ad un “esecutivo del Presidente”. La cui agenda politica, il cui programma, fosse appunto dallo stesso scritta; e al cui interno fossero necessariamente ricompresi: un piano serio di dismissioni del patrimonio immobiliare e mobiliare dello stato per non meno di 200 miliardi di euro (da imputare a riduzione dello stock di debito); un vasto piano di liberalizzazioni per dare carburante alla crescita (peraltro previste nella contromanovra del Partito democratico); ulteriori e significativi tagli, questa volta selettivi, alla spesa pubblica corrente (come contemplati nella manovra presentata dal Terzo Polo); la riforma del sistema pensionistico (per adeguare l’età di accesso al rapporto di quiescenza agli standard europei); una anche solo minima sforbiciata alle tasse, a favore di imprese e famiglie a basso reddito, da finanziarsi mediante un taglio alle erogazioni a fondo perduto di cui beneficiano, oggi, le aziende.
Un esecutivo siffatto, un esecutivo del Presidente, aperto e sostenuto da tutte le forze parlamentari, accanto ad esponenti politici, poi, dovrebbe necessariamente includere tecnici di chiara fama (per rassicurare gli investitori): Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Mario Monti.
Se si vuole uscirne vivi, questa è l’unica soluzione.
Napolitano, si dia da fare.
E presto, per cortesia.