Bersani e il Pd bocciati anche dal Wall Street Journal. Per colpa soprattutto di Fassina e Civati

Ultimamente, dalle parti del Nazareno, non gliene va bene una: nell’ultima settimana, infatti, prima hanno rimediato una bastonatura senza precedenti alle Regionali molisane, arrivando addirittura a perdere contro un cadavere (il centrodestra berlusconiano); poi gli è piombata addosso la bocciatura senza appello di uno dei più prestigiosi quotidiani economici dell’Occidente, il Wall Street Journal. Il quale, in un articolo firmato da Alexander Lee, ha definito del tutto inadatte, ad affrontare la crisi attuale, le posizioni economiche espresse da Bersani e, più in generale, dal Partito democratico.

Vediamo alcuni passaggi dell’articolo:

“(…) Anche se non rappresenta la migliore delle strategie possibili, il piano di Berlusconi è l’unico serio pacchetto di riforme in questo momento. Oltre a chiedere da mesi le dimissioni di Berlusconi, l’opposizione del Partito Democratico ha fallito nell’avanzare proposte realistiche per i conti pubblici. Non conta quanto fondate siano le critiche nei confronti delle misure di austerità di Berlusconi, perché il Partito Democratico non ha di meglio da offrire (…)”.

“Al momento, le proposte del Partito Democratico rimangono focalizzate sulla creazione di nuovi posti di lavoro e sull’imposizione fiscale progressiva, questioni di cui vorrebbe occuparsi anche Silvio Berlusconi. Ma le continue divisioni hanno impedito al Partito Democratico di spiegare come vorrebbe raggiungere questi obiettivi. In seguito alle prestazioni poco esaltanti del partito nelle elezioni amministrative di maggio, gli elettori hanno poca fiducia e sono preoccupati che il partito si possa dividere una volta al governo. Le stesse preoccupazioni hanno impedito ai sindacati tradizionalmente legati alla sinistra di dare il loro pieno sostegno al Partito Democratico, e hanno portato alcuni parlamentari ad andare dalla parte del presidente del Consiglio nei momenti del bisogno.

Vista in quest’ottica, la vittoria di Berlusconi nel voto di fiducia di venerdì sembra meno sorprendente. Il suo successo è un prodotto del fallimento della sua opposizione.

Ma mentre la debolezza del Partito Democratico in materia di politica economica può essere una buona notizia per Berlusconi, è quasi certamente una brutta notizia per l’Italia. Data la probabilità di default e stagnazione, è chiaro che il paese abbia urgente bisogno di una forte alternativa a Berlusconi.

Anche a rischio di dividere il partito e di perdere nuovamente alle elezioni, la leadership del Partito Democratico deve farsi carico di elaborare una politica economica chiara ed efficace focalizzata sugli stimoli per la crescita e la stabilizzazione della spesa pubblica. Sarà un percorso duro, ma la vittoria al voto di fiducia di Berlusconi dimostra che il Partito Democratico ha necessità di ripensare la propria strategia economica a partire dalle fondamenta per rimettere in sesto l’Italia”.

Sono critiche sensate e giuste, e per nulla faziose: il Partito democratico, lo si è rilevato anche qui, non ha ancora chiarito cosa farebbe, per affrontare la crisi economica, qualora fosse chiamato a governare il Paese; se applicherebbe alla lettera le “prescrizioni liberiste” della Bce o se, invece, le disattenderebbe.

Il problema più serio, poi, è rappresentato dal fatto che al suo interno sia profondamente diviso sulle ricette da applicare all’Italia. E, come se non bastasse, negli ultimi tempi pare finanche attraversato da nostalgie e parole d’ordine che, francamente, credevamo seppellite assieme alle spoglie del Partito comunista; e che non hanno, né mai potrebbero avere, cittadinanza alcuna nei soggetti politici appartenenti alla famiglia delle socialdemocrazie europee. Lì dove, è necessario sottolinearlo, si ha ben chiara una cosa: non c’è democrazia senza rispetto delle libertà individuali, a cominciare da quelle economiche. E qui veniamo ai problemi del Pd.

Negli ultimi tempi – soprattutto per colpa di persone quali Pippo Civati, Stefano Fassina e Fausto Raciti –, il linguaggio e le proposte dei democrat si sono tinte, pericolosamente, di rosso antico. Sono tornati d’attualità, cioè, temi che mai hanno fatto parte dell’agenda politica di liberal-socialisti (o socialdemocratici) di alto rango come Tony Blair, Gerhard Schröder o José Luis Rodríguez Zapatero.

In particolare, i succitati hanno mosso critiche severe, ed ovviamente fruste, al sistema economico che caratterizza tutti i paesi occidentali: il liberal-capitalismo frutto della libera interazione, e della spontanea scelta, di miliardi di essere viventi.

Lo hanno fatto a più riprese ed anche di recente. Fassina, neanche fosse un esponente di Rifondazione comunista, si è scagliato aspramente contro le più che giuste richieste “neoliberiste” della Bce, arrivando a sostenere la necessità di disattenderle integralmente (cosa che, se avvenisse, a noi produrrebbe danni economici ingenti, visto che spingerebbe l’istituto di Francoforte a non acquistare più i nostri titoli del debito sul “mercato secondario”). Mentre Civati e Fausto Raciti (responsabile nazionale dei giovani del Pd) si sono spinti addirittura oltre, dichiarandosi in perfetta sintonia con la “piattaforma programmatica”, veterocomunista ed antiliberale, dei cosiddetti Indignados (Civati lo ha fatto su Twitter; Raciti, invece, addirittura partecipando alla loro manifestazione).

Ecco, partendo da queste tre persone e dalle posizioni che esprimono, tutt’altro fuorché isolate all’interno del Pd, si fa fatica a pensare che il partito guidato da Bersani possa dare risposte serie e credibili ai problemi del Paese e rappresentare un’alternativa di governo al pessimo Berlusconi.

Si fa fatica a pensarlo perché il succitato trio, e chi ne condivide le farneticazioni, sia consentito rilevarlo, pare completamente scollato dalla realtà. Vittima di pregiudizi e superstizioni, fanatismo ideologico e dogmi (per non dire: ignoranza).

Civati & C., infatti, un giorno sì e l’altro pure, sono soliti imputare le difficoltà del nostro paese al cosiddetto liberismo. Il quale, ma a loro non risulta perché hanno più di un problema con la logica e la conoscenza del reale, nel nostro paese è quasi del tutto assente. Essendo “operativo”, il liberismo, lì dove esistano elevati indici di libertà economica. E da noi si dà il caso siano tra i più bassi al mondo (siamo 35esimi, su 43, in Europa, e 74esimi al mondo; addirittura la Grecia sta meglio di noi).

Ad indicare la bassissima libertà economica di cui godiamo, e quindi la totale assenza (o quasi) di liberismo, ci sono (tra le tante cose): la più alta pressione fiscale d’Europa (che è tale da arrivare a sottrare alle imprese il 68% dei loro guadagni); il più consistente livello di spesa pubblica sul Pil; la presenza, degna di un paese del socialismo reale, di un tale livello di interventismo statuale in economia, da farci avere 13.000 – dicansi: TREDICIMILA – aziende pubbliche, quante probabilmente non se ne trovano nemmeno a Cuba, e che, tra l’altro, producono costantemente perdite perché vengono impiegate dai vari politici per dare lavoro ad amanti, parenti e clientes.

Dove vivono, Civati, Fassina e Raciti? In quale dimensione spazio-tempo parallela?

Siamo il paese meno libero d’Europa e questo fa sì che noi si cresca, da oltre un decennio, meno di qualunque altra nazione. Che è la ragione principale che impedisce ai nostri precari di essere assunti a tempo indeterminato.

Le soluzioni ai nostri problemi, checché ne pensino Civati & C., sono proprio quelle indicate dalla Bce.

Chi propone altro, non è adatto a governare il Paese.

E se n’è accorto anche il Wall Street Journal.



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6 Responses to "Bersani e il Pd bocciati anche dal Wall Street Journal. Per colpa soprattutto di Fassina e Civati"

  • Simone82 says:
  • gino says:
  • camelot says:
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