Feb 12
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Entro la fine di marzo, il governo dovrebbe presentare un disegno di legge contenente misure per riformare il mercato del lavoro. Due in particolare: innanzitutto il cosiddetto “contratto unico d’inserimento”, che andrebbe a rimpiazzare la stragrande maggioranza dei contratti a tempo determinato oggi in vigore e garantirebbe ai giovani maggiori tutele; ed in secondo luogo, l’abolizione dell’articolo 18 della legge 300 del 1970 (altresì nota come: Statuto dei lavoratori).
L’obiettivo dell’esecutivo è quello di porre termine, come richiesto quest’estate dalla Bce, alla disparità di trattamento, vero e proprio apartheid, esistente tra outsiders ed insiders: con i primi, i figli, esposti ad una flessibilità che troppe volte assume, oggettivamente, i contorni della precarietà; ed i secondi, i padri, che godono di tutele che non hanno eguali, o quasi, nel resto d’Europa.
Affronteremo in altra sede questi temi. Quello che qui si vuole mettere in evidenza, oggi, è che le statistiche che vengono fornite sulla percentuale di precari esistenti nel nostro paese, assai spesso sono false. Come falsa è la leggenda secondo cui in Italia esisterebbero molti più lavoratori a tempo determinato che in qualunque altra nazione europea. Tutto smentito da questo grafico.
La tabella, è bene precisarlo, è stata presa da quest’articolo di Les Echos (il più importante quotidiano economico francese ed uno dei più prestigiosi in Europa); ed elaborata sulla base dei dati forniti da Eurostat. Quindi sono cifre vere ed ufficiali.
Ebbene, l’Italia, fatta eccezione dell’Irlanda e del Regno Unito, ha la più bassa percentuale di lavoratori a tempo determinato d’Europa: 13,6 ogni 100. Contro i 27,4 (ogni 100) della Polonia; i 26,1 della Spagna (fino a ieri l’altro governata dal socialista Zapatero); i 22,7 del Portogallo; i 15,9 della Francia; i 14,9 della Germania. Anche la media dell’Europa a 27 paesi è più alta: 14,4.
Insomma, anche in questo caso siamo ultimi in classifica.
Ma, per una volta, non è affatto detto sia un male.