Monti tagli la spesa o vada a casa. Meglio morire per mano di Vendola che di un liberale costretto a fare politiche socialiste

Due settimane fa, il Ministro per i Rapporti col Parlamento, l’economista di sinistra Piero Giarda, intervistato da il Corriere della Sera, dichiarava:

«La revisione della spesa (la cosiddetta spending review, ndr) è una procedura che dovrebbe costituire un dato permanente. La nostra attenzione è concentrata sulle risorse impiegate per il finanziamento dei servizi delle amministrazioni centrali, nel complesso quindi circa 100 miliardi di euro destinati alle spese di personale, di funzionamento e ai consumi intermedi.

Le proiezioni tendenziali su cui questo e i precedenti governi hanno definito interventi correttivi implicano l’invarianza della spesa primaria (al netto degli interessi) nei prossimi anni. Per alcuni comparti la naturale tendenza difficilmente potrebbe consentire di rispettare questo principio. Bisogna allora intervenire sulla struttura di produzione dei servizi pubblici per garantire il raggiungimento degli obiettivi prefissati, senza causare tagli non necessari dell’offerta dei servizi. Ma si può fare anche di più. La speranza è di reperire fondi da destinare alla riduzione della pressione fiscale o a misure per lo sviluppo.

Il programma è di presentare entro aprile, in Consiglio dei ministri, un primo rapporto sulle criticità che stanno emergendo dall’ analisi. L’ avvio degli interventi concreti sarà frutto di una decisione collegiale. La collaborazione con i vari ministeri si sta intensificando. Gli stessi ministri organizzano gruppi di lavoro interni ai loro dicasteri per avviare i processi di revisione della spesa. Il primo passo sarà la rinegoziazione dei contratti di fornitura di beni e servizi in scadenza tra il 2012 e il 2013 e la revisione di alcuni programmi di spesa non più prioritari. Tempi un po’ più lunghi richiederà la riorganizzazione delle strutture di produzione dei servizi».

Bene. Tutto questo lasciava presagire che il Governo degli Ottimati fosse meritoriamente intenzionato ad affondare il bisturi nella spesa corrente onde ridurne, selettivamente e non linearmente (come aveva fatto in precedenza Tremonti), l’ammontare; e lanciare un messaggio chiaro ai mercati, ovvero agli investitori che possiedono i nostri Buoni del Tesoro e titoli obbligazionari vari. Questo: vogliamo varare misure di austerity agendo sul versante delle uscite e non dell’entrate perché, essendo persone competenti e versate nelle questioni macroeconomiche, al contrario di Stefano Fassina, siamo perfettamente consapevoli del fatto che i tagli alla spesa corrente, come evidenzia qualsiasi analisi econometrica accettata in letteratura, producano effetti infinitamente meno depressivi sul Pil, e dal punto di vista quantitativo e dal punto di vista temporale, di quanto non facciano gli incrementi del prelievo fiscale; e, siccome vogliamo risolvere i problemi del Paese, e non certo aggravarli come farebbero Fassina e Vendola, da qui a qualche mese, anche per onorare le perentorie richieste formulate al Paese dalla Bce (l’estate scorsa), procederemo come su esposto, contraendo cioè le uscite, e ridurremo la tracotante e pletorica presenza del Leviatano; ciò che, nel medio periodo, consentirà ai contribuenti di avere più soldi in busta paga e versare meno tasse (visto ch’esse servono solo a finanziare le uscite, cioè la spesa, che noi vogliamo tagliare).

Questo lasciava presagire l’intervento di Giarda.

Senonché, ieri è accaduto che il vice ministro dell’Economia, uno che ogni volta che apre bocca fa una topica, l’economista nonché (appunto) gaffeur Vincenzo Grilli, intervenendo al Forum di Confcommercio a Cernobbio, abbia di molto ridimensionato la portata dei tagli e dei risparmi che potrebbero scaturire dalla spending review cui lavora l’Esecutivo; sottolineando che:

«Non dobbiamo aspettarci un taglio della spesa nell’ordine delle decine di miliardi di euro».

Ecco. Verrebbe da dire, se si fosse in un basso partenopeo: ‘sti strunzate vall’ a raccuntà a chella granda zumpapereta ‘e mammeta! Siccome, però, non ci si trova in un contesto del genere, tra l’altro ben più rispettabile e meno malfamato di qualunque palazzo del potere, proveremo a rispondere diversamente; non prima di aver premesso e ricordato che, per colpa soprattutto della delega fiscale deliberata dal socialista di Dio Tremonti, o si riesce a ridurre la spesa corrente al più presto, o da ottobre l’aliquota Iva ordinaria passerà dal 21 al 23%, e quella agevolata dal 10 al 12%. Chiaro il concetto?

Bene. Proviamo ad argomentare, allora.

Esistono due capitoli di spesa, come è noto a chiunque abbia anche solo un minimo di conoscenza del bilancio dello stato, dove è possibile tagliare diecine di miliardi di euro con estrema facilità e senza provocare danno “collaterale” alcuno (o quasi). E a dirlo non è il pirlacchione che porta avanti codesto modesto blog, ma tre insigni economisti: Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e Mario Baldassarri.

Il primo capitolo di spesa è quello relativo ai 30-40 miliardi di euro annualmente erogati a fondo perduto, e per ragioni clientelari, a talune aziende. Ce lo facciamo ricordare dal professor Giavazzi che, l’ultima volta, ne ha parlato il 20 marzo scorso (su il Corriere della Sera):

«Mi riferisco (…) a quei politici che parlano del futuro dell’Italia e in realtà pensano solo al futuro proprio, a quale posto riusciranno a occupare nel prossimo giro della giostra romana. Si stracciano le vesti se il governo usa il voto di fiducia per evitare che alcuni provvedimenti vengano del tutto svuotati di efficacia in Parlamento: in realtà temono solo che il voto di fiducia annulli il loro potere di intermediazione fra governo e corporazioni. Alti dirigenti dello Stato che asseriscono l’impossibilità di tagliare anche di un solo euro la spesa pubblica, difendono l’assoluta necessità dei 30 miliardi che ogni anno lo Stato trasferisce ad imprese pubbliche e private: tutti essenziali, e soprattutto quelli destinati alle aziende nei cui consigli di amministrazione essi siedono da anni».

In tale comparto è impossibile non si riesca a tagliare 5-10 miliardi di euro. Impossibile. Se non lo si fa, è solo perché questo danaro pubblico – racimolato con le tasse imposte ad operai, pensionati al minimo, impiegati, piccoli commercianti, artigiani ed industriali – serve ai politici per comprare il consenso – il voto – di talune persone. Pura Mafia. Come mafioso è il silenzio e l’atteggiamento di chiunque non denunci tale sperpero di risorse.

Passiamo oltre.

Il secondo comparto dove si può tranquillamente procedere col machete è quello della spesa per consumi intermedi nella Sanità; cresciuta, negli ultimi 5 anni, del 50%; ben oltre, dunque, la mera rivalutazione monetaria, il recupero dell’inflazione, l’indicizzazione, che al massimo avrebbe dovuto produrne un incremento del 15%.

Fa d’uopo precisare che tale voce non riguarda la spesa per erogare servizi sanitari al cittadino; ma quella pertinente l’acquisto, da parte di Asl e affini, di siringhe, garze, alcool etilico, cerotti e via discorrendo.

Bene. Anche su questo argomento, per altro ben noto ai lettori di questo blog (visto che qui se ne scrive ogni due per tre), facciamo parlare un economista. In questo caso, il professor Mario Baldassari (che è anche senatore e presidente della Commissione Bilancio):

«Con Piero Giarda eravamo nella commissione tecnica della spesa pubblica 25 anni fa e già allora scoprimmo che una penna Bic poteva costare da 300 a 3000 lire. I veri costi della politica non sono negli stipendi o nel numero dei Parlamentari. Se impostassimo un taglio di metà dei loro stipendi e del numero di deputati e senatori risparmieremmo 450 milioni di euro all’anno. Invece ne buttiamo altrove 45 miliardi. Sono questi i costi della politica veri».

«Partiamo dal totale della spesa pubblica. Sul 2011 la spesa pubblica ammonta a 820 miliardi di euro, più o meno il 52 per cento del Pil. Le voci più importanti sono anzitutto gli stipendi della pubblica amministrazione (181 miliardi), le pensioni (250 miliardi) e gli interessi sul debito (87 miliardi) (…). Bisogna incidere sulle voci che mancano».

«È su queste ultime, che riguardano gli acquisti dei beni e servizi della pubblica amministrazione, che si annida un 30 per cento di ruberie mostruose. Questa voce comprende forniture, appalti, global service, insomma le lenzuola, le medicine o le siringhe dell’ospedale. Sono 137 miliardi di euro. Infine, una voce molto nascosta negli ultimi anni, è quella dei contributi alla produzione (quelli alle aziende, ndr), 42 miliardi che nel 2011 scendono a 39. Il totale è un patrimonio da 180 miliardi che si può aggredire con enormi risultati».

«Il nodo è politico: significa tagliare il brodo di coltura di 300 mila persone che si nasconde e prospera nella zona grigia che sta tra politica, economia e affari. Faccio un esempio. Ogni posto letto italiano consuma ogni giorno nove siringhe. La degenza media è di nove giorni. Mediamente ogni paziente che esce da un ospedale dopo nove giorni dovrebbe avere 81 buchi (come è possibile?, ndr)… Un altro elemento di riflessione: mentre i fondi perduti sono stabili, nel 1990 gli acquisti per beni e servizi erano 52 miliardi; nel 2000 erano lievitati a 86 miliardi; ma nel 2011 sono letteralmente esplosi a 137 miliardi. Solo nella sanità abbiamo registrato un aumento di queste voci del 50 per cento in ultimi cinque anni – neanche ci fosse stata un’epidemia di colera!».

«Tutti i sussidi vanno trasformati in credito d’imposta. Io ti do il sussidio, ma tu stai sul mercato, mandi avanti l’azienda e riscuoti quando paghi le tasse. Mentre sugli acquisti bisogna dare un budget. E dire: tutte le p.a. possono spendere sulle voci di spesa quello che hanno speso nel 2009, più l’inflazione. I risparmi così ammonterebbero secondo me a 40-50 miliardi all’anno (…)».

Ecco. Anche arrivando a tagliare meno, ci sarebbero margini per recuperare, tranquillamente, almeno 15-20 miliardi di euro l’anno (un punto, o poco più, di Pil). 15-20 miliardi di euro che, ora come ora, servirebbero ad evitare l’incremento delle due aliquote Iva cui prima si è accennato; e che, superata la crisi e raggiunto il pareggio di bilancio (nel 2013), potrebbero addirittura – pensate un po’ – tradursi in una riduzione delle imposte.

Certo, se lo si facesse, Bersani, Casini, Alfano, Fini e compagnia cantando avrebbero meno risorse a loro disposizione per comperare il voto di taluni italiani. Cosa che, a 12 mesi esatti dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento, come è facile intuire, non può certo allettarli.

Ed è per questo che hanno chiesto al governo di procedere esclusivamente sul versante delle uscite, cioè delle tasse (come qui sottolineato più e più volte), incrementandole. Anche perché ciascuno di essi può attribuirne la colpa agli altri. È facile e conveniente, a conti fatti.

Il punto, però, è che in questo stramaledetto paese – e come forse non sanno lor signori, visto che non lavorano (né mai lo hanno fatto) o, in alcuni casi, sono addirittura mantenuti dalle proprie facoltose (ed avvenenti) compagne (beati loro!)  – è da sei anni che, ininterrottamente, e per loro volere, aumenta la pressione fiscale e per tutti. E, probabilmente, siamo arrivati ad un punto in cui la sopportazione del contribuente non può più essere messa alla prova e sottoposta ad alcuno stress. A meno che non si voglia scatenare delle rivolte, naturalmente. Così come non può essere sottoposta ad altri aggravi fiscali l’economia del Paese. A meno che non si voglia prolungare “in eterno” gli effetti della crisi.

Allora mi chiedo. Visto che lor signori ritengono, a torto, la crisi si sia in parte ridimensionata, per effetto del calo dello spread (come se il livello di quest’ultimo non fosse legato all’ammontare abnorme del nostro debito, che resta sempre eguale dacché nessuno vuole decurtarlo privatizzando parte del patrimonio dello stato), e sia divenuto loro possibile, dunque, non obbedire più a Monti (né alla Bce). Visto che, altresì, fanno di tutto per ostacolarne l’operato (lo abbiamo visto con le liberalizzazioni a tal punto annacquate da essere del tutto inutili a rilanciare la crescita). Visto che, ancora, continuano a sodomizzarci con una gragnuola di tasse senza però metterci la faccia, potendone attribuire la responsabilità ora ai professori ora agli alleati “innaturali” di coalizione (troppo comodo!). Visto che, in ultimo, anche a Monti non conviene più restare al potere, perché oggi giorno che passa rischia viepiù di perderci la faccia. Ecco, visto tutto ciò, non sarebbe meglio andare al voto immediatamente?

Certo, ora come ora, se lo si facesse, vincerebbero Bersani e Vendola; e, arrivati a Palazzo Chigi, e come d’abitudine, varerebbero provvedimenti malsani che affonderebbero definitivamente la nostra economia.

Ma, almeno, in quel caso finiremmo subito all’obitorio. Volete mettere?

Meglio, molto meglio, una morte veloce e per mano comunista, che una lenta agonia dovuta alle metastasi che si diffondono a causa dei provvedimenti socialisti che lor signori – Alfano, Bersani, Casini e Fini – hanno imposto ad un galantuomo e liberale come Monti.

Il mio carnefice dev’essere un comunista. Non un mercatista costretto a fare, obtorto collo, cose di cui vergognarsi.



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15 Responses to "Monti tagli la spesa o vada a casa. Meglio morire per mano di Vendola che di un liberale costretto a fare politiche socialiste"

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  • camelot says:
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  • Augusto says:
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  • Fabio G. says:
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  • Fabio G. says:
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