Riforma del lavoro, articolo 18: il licenziamento discriminatorio resterà sempre nullo

Se non contenesse alcune modifiche, peraltro minime, all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quella messa a punto dalla giuslavorista gauchista Elsa Fornero non potrebbe ch’essere qualificata come una riforma di estrema sinistra. Siccome le contiene, però, è giusto venga definita altrimenti: una pessima riforma di sinistra.

È pessima perché di sinistra. È di sinistra perché parte dall’assunto che le tutele da accordare al singolo dipendente abbiano più importanza della creazione di posti di lavoro. È di sinistra perché riduce, drasticamente, la cosiddetta flessibilità in entrata (il precariato), considerandola il male assoluto (e cancellando, de facto, la Legge Biagi grazie alla quale circa 3 milioni di persone hanno trovato un’alternativa alla disoccupazione: un impiego). È di sinistra perché, ingiustificatamente, vessa le imprese con nuovi e più gravosi adempimenti burocratici e con oneri fiscali aggiuntivi (tanto gli imprenditori sono sporchi capitalisti e li si può torchiare come e quanto si voglia: mica pagano già il 68% di tasse, contro il 48 dei loro colleghi tedeschi). È di sinistra, in ultimo, perché, invece di tenere conto della “realtà fattuale”, delle ragioni che spingono le imprese ad assumere e a creare ricchezza, piega la medesima realtà ai propri Dogmi.

Con la conseguenza, come altrove dettagliatamente spiegato, ch’essa genererà maggiore disoccupazione, soprattutto nel Meridione d’Italia. E, quindi, nuova ed ulteriore povertà. Come sempre e solo fanno le “ricette” di sinistra (a meno che non ricalchino, pedissequamente, quelle di destra).

Ebbene, nonostante codesta riforma abbia un impianto logico e normativo indiscutibilmente gauchista, viene contestata dalla sinistra.

Perché? Presto detto.

Tra le modifiche ch’essa introduce all’articolo 18, ve n’è una che riguarda la disciplina dei cosiddetti licenziamenti individuali per motivi economici, che ai signori del Pd non va proprio giù. E, siccome sono soliti usare la menzogna come strumento di lotta politica, pur di ottenere ciò che chiedono (è una vecchia prassi comunista mai abbandonata), stanno raccontando un mare di sciocchezze, è avvenuto ad esempio ieri sera a Ballarò, e terrorizzando milioni di italiani.

Vediamo come, non prima di aver accennato alle modifiche che introduce la riforma.

Licenziamenti individuali per motivi economici: cosa cambia

Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – una crisi aziendale; la cessazione dell’attività; il venir meno della necessità di una determinata mansione -, se il giudice adito dal lavoratore non ne riscontra la sussistenza, con la riforma Fornero non potrà più ordinare al datore di lavoro di riassumere il dipendente, ma solo obbligarlo a versargli un indennizzo variabile tra le 15 e le 27 mensilità (oggi, invece, è pari a 15 mensilità). Prima che si arrivi dinanzi al giudice, tuttavia, la riforma prevede che si debba tentare una conciliazione tra le parti: il datore di lavoro invia una lettera alla direzione territoriale del lavoro; viene istituita un’apposita commissione per gestire la conciliazione; la commissione ascolta le parti (il lavoratore può essere assistito da rappresentanti del sindacato); prova a far sì ch’esse raggiungano un’intesa e a tal uopo formula una proposta di conciliazione; s’essa fallisce, e dopo aver verbalizzato la posizione delle parti che sarà vincolante per il giudice che dovrà vagliare il caso, la palla passa al tribunale. Il quale, sempre secondo la riforma, dovrà giudicare con il cosiddetto “rito abbreviato”.

Ora, la sinistra, quella rappresentata dal Pd (ma anche dall’Italia dei Valori), vorrebbe che il giudice avesse invece due opzioni tra cui scegliere, nel caso in cui s’imbattesse in un licenziamento avvenuto senza giustificato motivo oggettivo: il reintegro o l’indennizzo del lavoratore.

Il problema è che per averla vinta, per provare a far sì che il governo modifichi la riforma su questo punto, sta diffondendo terrore tra la gente. Raccontando che, se la norma approntata dalla Fornero dovesse divenire operativa, il datore di lavoro potrebbe ricorrere ai licenziamenti per motivi economici per camuffare anche quelli posti in essere per motivi discriminatori. Tanto, se anche dovesse essere condannato da un giudice, al massimo gli toccherebbe corrispondere un’indennità economica al lavoratore.

Ma ciò è vero? Assolutamente no.

Innanzitutto, il licenziamento discriminatorio – posto in essere per ragioni politiche, religiose, sindacali, sessuali o anche a seguito di una maternità o di un matrimonio – resterà sempre e solo nullo, anche con la riforma Fornero, e il lavoratore avrà sempre diritto al reintegro sul posto di lavoro e alla corresponsione di un indennizzo risarcitorio (pari a tutte le mensilità di stipendio non percepite e comprensivo dei contributi).

In secondo luogo, se un lavoratore lamentasse il fatto d’essere stato licenziato per ragioni discriminatorie, anche se formalmente il suo datore di lavoro ha addotto motivazioni di natura economica, il giudice adito avrebbe l’obbligo di accertare preliminarmente la natura effettiva del licenziamento. E, se il lavoratore riuscisse a provare di essere stato defenestrato per ragioni di natura politica, giusto per fare un esempio, il giudice sarebbe obbligato a dichiararne nullo il licenziamento e a disporne il reintegro nel posto di lavoro (garantendogli anche un risarcimento).

D’altra parte, il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri è esplicito, in proposito:

«Per i licenziamenti discriminatori, le conseguenze rimangono quelle del testo attuale dell’art. 18: condanna del datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal predetto, a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a risarcire al medesimo i danni retributivi patiti (con un minimo di 5 mensilità di retribuzione), nonché a versare i contributi previdenziali e assistenziali in misura piena. Inoltre, il dipendente mantiene la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Il medesimo regime si applica per i licenziamenti disposti nel periodo di maternità, in concomitanza del matrimonio, nonché disposti per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 del codice civile.

La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane, pertanto, piena ed assoluta, comportando esso la lesione di beni fondamentali del lavoratore, di rilievo costituzionale (…).

Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni, di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice applica la relativa tutela».

Punto.

Aggiornamento del 29 marzo.

Finalmente qualcuno del Pd s’è accorto che la riforma è di sinistra: «La proposta del governo contiene praticamente tutte le istanze auspicate da centrosinistra e sindacati negli ultimi quindici anni. Differenziazione marcata delle aliquote contributive, in modo che il lavoro precario costi più di quello stabile. Abolizione (stage gratuiti, dimissioni in bianco, lavoro dipendente mascherato da partita IVA, associazione in partenariato) o deciso ridimensionamento (co.co.pro. , part.time, lavoro intermittente) di quelle che nella prassi erano divenute vere e proprie forme di sfruttamento dei giovani, con l’istituzione dell’apprendistato regolato come modalità di ingresso prevalente nel mercato del lavoro. Estensione sia sul margine intensivo (l’ammontare) che estensivo (la platea di beneficiari) degli ammortizzatori sociali, eliminando l’utilizzo distorto di cassa integrazione e mobilita’ come prolungato accompagnamento al prepensionamento (altro strumento distorsivo) e quindi all’impossibilita reale di ricollocare il lavoratore. Attenzione speciale, con risorse aggiuntive, ai lavoratori over-50 espulsi dai processi produttivi. La parte meno ideologizzata del dibattito non nega questi fattori, ma li considera un’inezia rispetto ai licenziamenti selvaggi che a loro dire la nuova disciplina sull’art.18 imporrebbe. Dimenticando, senza dubbio involontariamente, che sui licenziamenti sui quali il giudice accerta un motivo discriminatorio rimane l’obbligo di reintegro, così come sui licenziamenti disciplinari che il giudice valuti ingiustificati o non in violazione di specifici obblighi contrattuali».

Aggiornamento del 30 marzo.

Anche per il senatore del Pd Pietro Ichino la riforma è di sinistra.



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14 Responses to "Riforma del lavoro, articolo 18: il licenziamento discriminatorio resterà sempre nullo"

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