Mag 12
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È notte fonda e le vacche sembrano tutte eguali. Ma non è così: alcune sono buone, altre no.
Uno strano fantasma s’aggira per l’Italia: il liberista che ha perso completamente la bussola e la trebisonda.
Questo nuovo tipo umano, quasi sempre dalle colonne di un giornale, ma non solo, per superare la crisi propone cose invero stravaganti, per un mercatista, e, talvolta, addirittura identiche a quelle che ci si aspetterebbe da un bolscevico.
Ad esempio non è infrequente, di questi tempi, imbattersi in articoli in cui il Nostro arrivi a proporre la “soluzione keynesiana”; la medesima caldeggiata da Nichi Vendola, Susanna Camusso, Giorgio Cremaschi, Massimo Landini, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto e Stefano Fassina: aumentare la spesa pubblica e ridurre le tasse di eguale ammontare (deficit spending), onde stimolare il Pil, l’occupazione e i consumi. Il fatto, poi, che tutto ciò non potrebbe ch’essere finanziato in deficit (addio avanzo primario), e dunque accrescendo ulteriormente il debito, la ragione prima (assieme alla scarsa crescita economica) per cui l’Italia è considerata dagli investitori un malato terminale di cancro, sembra non interessarlo. Così come il fatto che quanto egli proponga sia semplicemente irrealizzabile – potremmo anche dire: impossibile o vietato – alla luce dei molteplici trattati europei che, dal 1992 (Maastricht) ad oggi (Fiscal Compact), il nostro paese ha sottoscritto. Come pure poco gliene cale che i nostri problemi vengano da lontano e nulla abbiano a che vedere con l’attuale crisi internazionale: da oltre un decennio cresciamo meno di chiunque altro, in Europa (e quindi il nostro Pil arrancava anche quando la crisi dei subprime non era nemmeno lontanamente ipotizzabile e le nazioni del Vecchio Continente avevano saggi di crescita talvolta addirittura superiori al 3% annuo); abbiamo indici di libertà economica, e livelli di interventismo statuale in economia (13.000 aziende pubbliche), da paese del socialismo reale; dilapidiamo soldi pubblici con la stessa faciltà con cui il sottoscritto e Berlusconi cambiano donna, e non a caso la più parte delle cosiddette municipalizzate vanta perdite cospicue e nessuno, figurarsi il novello vessillifero del deficit spending, che proponga di estinguerle alienando ai privati quote di capitale sociale delle “piccole Iri”; tassiamo la ricchezza come s’essa rappresentasse un sacrilegio (“è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco vada in Paradiso”), arrivando a derubare le imprese anche del 68% degli utili che realizzano (contro il 48% della Germania), e dunque ne disincentiviamo la creazione; perseveriamo nel promulgare una quantità abnorme di leggi, onde rendere complicata l’esistenza agli individui (a che abbiano sempre a mente che la vita è “espiazione del peccato originario”), impossibile l’intrapresa economica, e per incrementare la burocrazia, sostentare una pletora di causidici altrimenti condannati alla disoccupazione e alla questua, ed accrescere il livello della intermediazione politica donde origina, e da sempre, la corruzione (corruptissima re publica plurimae leges).
Tutto questo, e moltissimo altro ancora, al Nostro non interessa. Il suo pensiero (oddio, pensiero: che parolone!), puolesi così riassumere: chi se ne fotte dei problemi strutturali del Paese; meglio crearne di nuovi se questo può, nel breve periodo, perché tanto “nel lungo saremo tutti morti” ed è inutile preoccuparcene, riesumare il nostro Pil.
Cosa lo distingua da un bolscevico, non è dato sapere. Resta il fatto ch’egli s’ostini a dirsi liberista.
Al pari di chi, invece di gioire perché finalmente s’è introdotto in Costituzione un sacrosanto principio e liberale, quello del pareggio di bilancio, e in più saremo chiamati a ridurre, nei prossimi anni, lo stock di debito accumulato in mezzo secolo di sperperi, all’una e all’altra cosa, previste dal Fiscal Compact, si oppone perché: A) Ce lo ha imposto l’Europa (sic!); B) Comporta perdita di sovranità nazionale (sic!); C) Integra un evidente complotto demo-pluto-giudaico-massonico e bancocratico, orchestrato da Frau Merkel per il tramite della propria marionetta, fra massone Mario Monti, e a riprova di ciò, infatti, non saremo chiamati a ratificare il succitato Trattato (il Fiscal Compact), al contrario di tanti altri popoli europei, mediante Referendum (sic!).
Ecco, evidentemente il Nostro, oltre ad essere un liberista che ha perso la bussola e la trebisonda, vive – e ha vissuto, negli ultimi quattro lustri – in una dimensione spazio-tempo parallela in cui:
1) La nostra Carta non prevede, al secondo comma dell’articolo 75, che: “Non è ammesso referendum per le leggi (…) di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”;
2) La sovranità nazionale, materialmente, non l’abbiamo già persa con l’ingresso nell’Euro (uno degli attributi qualificanti una nazione è il disporre di una valuta; se non se ne ha una propria, ma una comune a più paesi, al massimo si è una Regione o uno Stato facente parte di una Confederazione di Stati); e, prima di questo passo, sostanzialmente, nel 1992-1993 già con la ratifica del Trattato di Maastricht e del protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi che non statuivano, tra le altre cose, precisamente ciò che adesso – guarda caso! – ci viene nuovamente imposto dal Fiscal Compact: “Articolo 104 C del Trattato di Maastricht: La Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei (…) criteri seguenti: b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato. I valori di riferimento sono specificati nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato al presente trattato (…)”; “Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi. Articolo 1: I valori di riferimento di cui all’articolo 104 C, paragrafo 2, del trattato sono (…): il 60 % per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato” (esattamente la medesima soglia fino a quando non avremo raggiunto la quale dovremo decurtare, per effetto del Fiscal Compact, il nostro stock di debito di un ventesimo l’anno; cosa che ad ogni liberista che si rispetti dovrebbe fare solo piacere);
3) Noi non abbiamo deciso di aderire all’Euro perché ci tornava estremamente utile in quanto, grazie a codesta valuta, avremmo risparmiato (come puntualmente è avvenuto nella dimensione spazio-tempo in cui vive lo scrivente) un mare di miliardi in interessi sul debito; e perché senza di essa, invece, e con vent’anni d’anticipo, avremmo fatto la fine della Grecia sommersi da un indebitamento che sarebbe stato infinitamente ancora più alto di quello, già mostruoso, con cui ci ritroviamo a fare i conti oggi per colpa di un ceto politico di cleptocrati e di socialisti di sinistra e di destra.
Ecco, il Nostro, evidentemente perché vive in una dimensione spazio-tempo parallela in cui le summenzionate cose mai hanno visto la luce (non c’è altra spiegazione!), postula quanto si è detto.
Se vivesse in questa dimensione, invece, dovrebbe limitarsi ad eccepire solo su una cosa: che i nostri partitanti non abbiano inserito nella Carta, quando vi hanno incluso il principio del pareggio di bilancio, una soglia massima di spesa pubblica ammissibile in rapporto al Pil. Solo su questo può eccepire un liberista. Su altro, in ispecie se usa quegli argomenti, no: a meno che non voglia sembrare un fascista.
Ma il Nostro, in questi giorni, ha preso anche la forma di un cronista del quotidiano Libero. Dalle cui colonne, udite udite, c’è venuto a proporre quanto segue:
«(…) Un governo eventualmente sano e competente, e non uno che aumenti la spesa pubblica come quelli di Prodi e Tremonti alternatisi dal 1994 al 2011, potrebbe ridurre le tasse per stimolare l’economia accettando per cinque anni un deficit di bilancio elevato che poi sarebbe colmato dalla maggior crescita;
Se la Banca centrale europea avesse nel suo statuto anche la missione di stimolare la crescita (…) avrebbe la possibilità di abbassare temporaneamente il cambio dell’euro, facilitando così sia l’export eurodenominato sia l’attrazione di investimenti e di turismo extraeuropei. Con una ricetta del genere l’Italia non sarebbe ora in recessione, la sua produzione e competitività industriale sarebbe buona, l’occupazione quasi piena (…)».
Hai capito? Addirittura la quasi piena occupazione e il boom economico, stile anni ’60, sarebbero a portata di mano? Poffarbacco.
Ecco, se il governo in carica (in Italia) e la Bce facessero quanto su esposto, è altamente probabile – potremmo anche dire: certo – che si verificherebbe quanto segue:
1) Una riduzione delle tasse finanziata con un deficit elevato, immaginiamo superiore al 3% annuo e quindi pari almeno al 6-7%, e che inevitabilmente finirebbe per far crescere anche il debito (il nostro tumore), andrebbe ad incidere molto poco sulla ripresa del Pil, a meno che non fosse concentrata esclusivamente sui cosiddetti poveri, e solo perché si postula essi abbiano una propensione marginale al consumo molto alta. Se a beneficiarne fossero anche i non indigenti, infatti, più alto sarebbe il numero delle persone che potrebbero permettersi di comportarsi da “soggetti decisori razionali”. Ovvero: visto che il taglio delle imposte sarebbe finanziato in deficit e non con tagli alla spesa pubblica, esso avrebbe carattere temporaneo e non definitivo. Dunque ben pochi sarebbero così sciocchi da spendere più soldi, in consumi o in investimenti, sapendo che, presto o tardi, dovrebbero tornare a versare il medesimo livello d’imposte di prima, se non addirittura uno più alto per rimediare al “buco di bilancio” che verrebbe prodotto dalla detassazione priva di copertura finanziaria. La domanda complessiva resterebbe pressoché invariata, o crescerebbe molto poco.
2) In più, la svalutazione competitiva dell’euro provocherebbe, prima o poi, una fiammata inflattiva: qualunque materia prima e risorsa energetica di cui avessimo bisogno, ci costerebbe molto di più. Di conseguenza, e forse anche in tempi brevi, sarebbe logico attendersi una crescita dei prezzi. Anche questo farebbe desistere dallo spendere il “soggetto decisore razionale”. Il quale saprebbe che l’Ue e la Bce, avendo come propria mission anche quella di mantenere l’inflazione ad un livello basso, per salvaguardare il reddito reale (il potere d’acquisto) dei lavoratori, si muoverebbero, presto o tardi, per dare vita ad una “stretta monetaria”: aumentare il tasso ufficiale di sconto onde fermare la circolazione di danaro, disincentivare i consumi e gli investimenti privati, e stimolare il risparmio (tutte cose che farebbero crollare il Pil, ovviamente).
3) Il rischio, quindi, sarebbe quello di trovarsi, dopo quanto detto, in questa condizione: un’economia con crescita comunque asfittica, o forse addirittura stagnante, per le ragioni suesposte, accompagnata per di più da inflazione. Quella roba chiamata: stagflazione (per carità di patria, poi, si omette di considerare come potrebbero reagire gli investitori esteri e gli speculatori di fronte a codesto scenario).
Ecco, come tutto questo non appaia chiaro al Nostro, è un mistero della fede.
Così come lo è il fatto che, qualunque forma fisica prenda e da qualunque pulpito predichi, il liberista che ha perso completamente la bussola e la trebisonda non riesca, negli ultimi tempi, a proporre nemmeno una cosa liberale che sia una.
Tipo.
È così difficile suggerire, come hanno fatto Lamberto Dini e Natale D’Amico, di restituire il Tfr ai lavoratori? Parliamo di 12 miliardi di euro che potrebbero tornare nella buste paga dei lavoratori ed alimentare consumi (senza oneri per le finanze pubbliche e con maggiori entrate per il Leviatano, per di più). Questa cosa, se fosse approvata, avrebbe una sola – e non marginale, in questo momento – controindicazione: toglierebbe danaro alle aziende già alle prese con una stretta creditizia. Anche se, alimentando i consumi, potrebbe favorire una crescita dei loro guadagni (compensando, almeno in parte, la controindicazione summenzionata). Ma al Nostro, a quanto pare, non interessa.
Ancora.
È così difficile proporre, di fronte ad una crisi economica epocale come quella che stiamo vivendo, di mettere mano al Welfare onde ridimensionarne, in alcuni casi, il perimetro e solo per alcune tipologie di persone o di servizi pubblici?
Ad esempio. Perché i ricchi devono ottenere i farmaci gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale, e farseli pagare dalle tasse dei Co.Co.Pro., dei pensionati al minimo e degli operai? Quelli con un reddito – diciamo – da 100.000 euro in su, non potrebbero stipularsi una bella polizza assicurativa privata e provvedere, da soli, a se stessi? Io penso proprio di sì.
È per forza di cose necessario, poi, che praticamente tutte le Università debbano essere pubbliche? Producono preparazione di qualità ed opportunità di lavoro? Nient’affatto! Buona parte degli Atenei meridionali, dove le raccomandazioni sono più presenti e le cattedre universitarie si vincono per opera e virtù dello spirito santo, ovvero con concorsi truccati, sforna disoccupati. E non certo solo perché al Sud la disoccupazione sia endemicamente più alta.
Ecco. Non si potrebbe immaginare di privatizzare alcuni di questi Atenei, abolendo anche il valore legale del titolo di studio per mettere le Facoltà nella condizione di scegliersi il proprio corpo docente bypassando il meccanismo del concorso pubblico, così da trasformarli in tante piccole Bocconi? Non sarebbe soprattutto più utile per i poveri, per quelli che si fanno un culo così, sui libri di studio, perché vogliono – fottutissimamente: vogliono – un riscatto sociale che oggi, stante il pessimo livello qualitativo delle Facoltà, non riescono ad ottenere? Io credo di sì.
Si privatizzino un po’ di Atenei (non tutti); con una parte dei risparmi, come avviene negli Usa e nel Regno Unito, si creino borse di studio per le persone meno abbienti e scolasticamente meritevoli, dimodoché possano competere, al contrario di quanto avviene oggi, alla pari con i “figli di papà” e raggiungere qualunque livello sociale sia alla portata delle proprie capacità (la biografia di Barack Obama insegna, o dovrebbe farlo); e si usi la restante parte dei risparmi per ridurre le tasse al contribuente. È così tanto una bestemmia? Per un liberista, credo proprio di no. E però, al Nostro interessa altro e non questo.
Ancora.
Noi, come altre nazioni, a causa dell’elevato debito e della scarsa crescita (che accresce il rischio default), è come fossimo un malato di HIV: per evitare che noi si contagi altri paesi sani dell’Eurozona, ci è stato imposto, con il Fiscal compact, di ridurre il nostro stock di debito. Questo è il profilattico che ci è stato richiesto di usare.
È una cosa così sconveniente? Poco commendevole? Assolutamente no. È la cosa più giusta, equa ed etica che ci potesse essere richiesta: abbiamo una malattia che ci corre l’obbligo di curare e di non trasmettere ad altri (facendo crescere le turbolenze sui mercati finanziari).
Posto questo, non sarebbe il caso che il Nostro, profittando del fatto che scriva per un quotidiano (sempre e solo sovvenzionato dal contribuente, tra l’altro), si premurasse d’invitare il ceto politico, un giorno sì e l’altro pure, a privatizzare tutto il privatizzabile e alla svelta, invece di proporre cose improbabili e che sarebbero dannosissime, tipo il deficit spending o la svalutazione competitiva dell’Euro? Non sarebbe il caso che ad esso ricordasse anche, un giorno sì e l’altro pure, che abbiamo 1.800 miliardi di patrimonio pubblico da poter vendere, a cominciare dal “mattone di stato”, e che in qualunque parte dell’orbe terracqueo chiunque, finanche i socialisti massimalisti, ha privatizzato, da quando la crisi è iniziata, tranne noi? Io credo proprio di sì. E, allora, perché il Nostro non lo fa? Forse perché, come un Mucchetti qualsiasi, è convinto che in questo momento non si dovrebbe vendere perché farlo equivarrebbe a svendere l’argenteria di famiglia? E perché mai, di grazia, svendere dovrebbe essere poi un problema? Non lo è stato per Gordon Brown, non lo è stato per David Cameron, non lo è stato per Zapatero, e dovrebbe esserlo per noi? Cosa abbiamo di speciale, noi, a parte tutti i problemi economici dell’universo mondo concentrati in una sola nazione e la più assoluta assenza di intellettuali, di persone che riescano a vedere appena un po’ più in là del proprio flaccido armamentario voluttuario (ammesso ne abbiano uno)? Nulla. Siamo eguali al Regno Unito e alla Spagna. E, come e più di loro, dobbiamo vendere.
La crescita, poi.
Al Nostro risulta così tanto oneroso proporre e ripetere a pappagallo, come un mantra, un giorno sì e l’altro pure, ciò che Mario Baldassarri, forse l’unico economista italiano che conosca ed abbia studiato per davvero il bilancio dello stato, va suggerendo ogni volta che viene intervistato? Non credo. E perché mai non lo fa, allora? Forse perché ha perso a tal punto la sinderesi da pensare che anche l’austerity fatta con tagli alla spesa corrente e però accompagnata da una riduzione del prelievo fiscale, sarebbe comunque recessiva? Ma davvero? Si chiami l’ambulanza, allora, e lo si faccia tosto ricoverare.
Sempre in materia di crescita. Il Nostro ha qualcosa contro le liberalizzazioni, da quelle piccine picciò, che avrebbero effetti nell’immediato, a quelle grandi e strutturali, che inciderebbero nel medio periodo?
No? E perché mai, il Nostro, allora, non scrive un cacchio – che sia uno – di rigo sull’argomento, chiedendo al governo in carica di fare quante più liberalizzazioni sia possibile, magari iniziando da quella – piccina picciò – dei saldi nel commercio al dettaglio?
Come dite? Forse non gliene frega ‘na ceppa e, per di più, si dice liberista sol per convenienza, perché altrimenti sarebbe disoccupato o non scriverebbe sui giornali?
Ah, ecco. Ora si spiega tutto.
P.S. Gli eccentrici cronisti/editorialisti/commentatori di Libero e de Il Giornale, anche per frenare l’emorragia di lettori che da più di un anno colpisce i loro quotidiani (Libero: -6%; Il Giornale: -10%. Fonte: Fieg), potrebbero proporre cose ben più interessanti. Tipo. Portare l’aliquota marginale dal 43 al 33%, finanziando il tutto con tagli alla spesa corrente, naturalmente. L’operazione costerebbe tra 1,5 e 2 punti di Pil (tra 22,5 e 30 miliardi di euro) e, al contrario delle cose che sono soliti suggerire, davvero farebbe crescere il Pil a ritmi elevati e garantirebbe un riassorbimento più rapido della disoccupazione (e senza alcuna “droga”, come nel caso della svalutazione competitiva). Non solo: farebbe anche calare l’evasione fiscale («mi ci gioco una palla, due no, ma una sì»). Certo, per proporla, però, bisognerebbe essere liberisti.