Socialismo municipale: cancro italico

I fatti sono argomenti testardi, recita un vecchio adagio. Eppure, nel nostro paese, ad essi si dà sempre poca importanza: nel considerare qualsivoglia questione, infatti, siamo soliti prescinderne; finendo, così, per emettere verdetti solo sulla base di pregiudizi ideologici.

Si prenda le municipalizzate e, più in generale, le società partecipate dagli Enti locali.

Ebbene, se dovessimo attenerci scrupolosamente ai fatti, quali emergono da studi e rapporti, dovremmo concludere ch’esse abbiano molta poca utilità per la collettività; e tanta, invece, per lor signori politici che se ne servono per fare assunzioni clientelari e loschi affari. È quanto rivela, ad esempio, uno studio elaborato da alcuni docenti e ricercatori universitari – Sveva del Gatto, Diego Agus e Giulio Napolitano (figlio del più noto Giorgio) -, per conto dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione (Irpa), e denominato Capitalismo municipale.

Il succo dell’analisi è chiaro sin dalla premessa:

«L’indagine evidenzia lo straordinario sviluppo del numero e del peso delle società pubbliche locali e le disfunzioni da ciò derivanti. Il fenomeno è ancora più grave se si tiene presente che la maggior parte di tali società non è al servizio della comunità, ma della stessa amministrazione. Soltanto una quota minoritaria, infatti, gestisce servizi pubblici locali.

Le   modalità   di   affidamento   di   questi   ultimi,  a loro   volta, favoriscono indebitamente  le  società  a partecipazione  pubblica.  Lo  confermano i dati relativi ai pareri resi dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato sugli affidamenti in house. 

In questo modo i cittadini finiscono per pagare due volte un prezzo ingiusto: come  contribuenti,  sopportano  il  costo  di  imprese  spesso  inefficienti  e  in perdita; come consumatori, sono costretti a rivolgersi a gestori individuati per la contiguità al potere pubblico invece che per la capacità di offrire prestazioni migliori a condizioni più vantaggiose».

Iniziamo dai numeri. Le stime, perché cifre certe non ce ne sono, ci dicono che le società partecipate dagli Enti locali dovrebbero oscillare tra le 3.000 e le 6.000 unità. E danno di che mangiare a 300.000 lavoratori; 186.000 dei quali occupati nelle aziende operanti nei settori del trasporto locale, dei rifiuti, dell’acqua e dell’energia.

Appare doveroso, poi, sfatare un luogo comune. La più parte di queste aziende, come il più alto numero di lavoratori in esse occupato, non è presente nel Sud Italia, ma nel ricco Nord:

«Per quanto attiene, poi, alla distribuzione geografica delle società partecipate a livello locale, i dati mostrano una maggiore concentrazione al centro-nord rispetto al sud, dove il fenomeno delle partecipate è diffuso principalmente nei territori della Campania e della Sicilia.

(…) Gli addetti impiegati in società partecipate e controllate dagli enti locali nell’area Centro Nord sono il 74.5% del totale rispetto al 26.5% del Mezzogiorno» (non ditelo ai leghisti, però, ndr).

Quanto alla natura delle partecipazioni. «Secondo l’ANCI, il 30,5% delle imprese comunali è partecipato in modo totalitario dal Comune, il 27% delle partecipazioni garantisce una maggioranza assoluta, mentre il 13% delle partecipazioni è essenzialmente simbolico (meno del 5%)».

Interessante, poi, è capire quanto codeste società effettivamente servano ai cittadini. Ovvero in che percentuale esse operino in settori di “rilievo collettivo”. Ebbene, quelle attive nell’ambito dei cosiddetti servizi pubblici locali, sicuramente i più importanti, sul totale rappresentano soltanto il 37,6%. Mentre la più parte di esse, il 62,4%, s’occupa d’altro – «attività culturali sportive e sviluppo turistico, (…) servizi di supporto alle imprese, attività professionali scientifiche e tecniche, agricoltura silvicoltura e pesca, sanità e assistenza sociale, farmacie»; e non necessariamente di utile: «società partecipate che svolgono compiti anomali, come la gestione di un casinò da parte del Comune di Venezia (la Casinò Municipale di Venezia s.p.a.) o quella di un campeggio da parte del Comune di Jesolo (la Jesolo Turismo s.p.a.)».

Ecco. Forse quelle che si occupano di campeggi e casinò potrebbero essere tranquillamente privatizzate anche domani. Che ne dite?

Proseguiamo.

Altro capitolo spinoso è quello relativo al massiccio ricorso al cosiddetto in house, per l’affidamento dei servizi. In sostanza, i Comuni, quando si tratta di scegliere una società cui attribuire il compito di erogare servizi ai cittadini, anziché fare ricorso al meccanismo concorrenziale della gara, che consentirebbe d’individuare il soggetto più idoneo allo scopo, si rivolgono direttamente ad un’azienda da essi controllata. E questo, ovviamente, non fa l’interesse del contribuente:

«I dati sugli affidamenti diretti (…) indicano chiaramente come lo strumento societario sia stato utilizzato dagli enti locali principalmente per eludere i controlli pubblicistici e, in particolare, le norme di derivazione europea in materia di concorrenza.

La prevalente gestione pubblicistica, seppur attraverso società partecipate, dei servizi pubblici locali ha generato una serie di disfunzioni dovute al prevalere delle logiche politiche sulle logiche di mercato. La teoria economica ha da tempo evidenziato  le  conseguenze  negative  che  derivano  dalla  commistione  dei  ruoli  che caratterizza il rapporto comune – partecipata locale, la quale si trova a dover tener conto di   interessi   contrastanti   quali, da un lato, quelli politici (come, ad   esempio, l’utilizzazione delle spa per massimizzare gli introiti dei bilanci comunali o per consentire assunzioni indiscriminate), e, dall’altro, quelli del mercato e degli utenti (quali, ad esempio, il miglioramento della qualità del servizio, in primis, il mantenimento di tariffe adeguate e il perseguimento di un’adeguata politica di investimenti infrastrutturali)».

Strettamente correlato, poi, appare il tema dell’utilizzo delle municipalizzate, e più in generale delle società partecipate, per scopi clientelari, ovvero per dare posti di lavoro ad amici, elettori e parenti; cosa che, a sua volta, e come altrove qui discusso, produce effetti indesiderati, in termini economici, e cioè ingenti perdite che il contribuente, poi, è chiamato a ripianare versando maggiori tasse:

«In questo senso, i dati, sopra visti, relativi alla crescita del numero degli occupatisoprattutto nelle partecipate che operano nel settore delle local utilitiesin controtendenza con gli attuali dati dell’occupazione a livello nazionale, sono decisamente emblematici di un uso dello strumento societario funzionale alla distribuzione di posti e prebende, piuttosto che al perseguimento di utili o al soddisfacimento degli utenti.

(…) L’aumento delle assunzioni stride decisamente con le perdite registrate dalla maggior parte delle partecipate locali, in particolar modo da quelle che operano nei settori del trasporto e dei rifiuti.

Secondo i dati raccolti dalla Corte dei Conti, il 32,4% delle partecipate comunali è in perdita. Tra queste, il 40% gestisce servizi pubblici locali e, all’interno di questa percentuale, il 60% di tali attività in perdita attiene al settore idrico e dei rifiuti, mentre il 35% ai trasporti (…)».

Ecco. Se tutti ci si attenesse ai fatti, e solo ad essi, l’idea di privatizzare buona parte di queste società sarebbe largamente condivisa.

Sull’argomento, da leggere anche: Società partecipate dai Comuni: al centrosud sono in rosso, complessivamente, per più di 85 milioni di euro.



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