Set 12
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I problemi del Paese sono tutti e solo sistemici e tra loro intimamente correlati. Non è possibile risolverne uno senza mettere mano anche agli altri: lo sforzo sarebbe vano, non produrrebbe risultati.
La condizione economica dell’Italia, ad esempio. Essa è frutto di decenni di dissennate politiche stataliste, ispirate al più becero ed autoritario keynesismo, sia pur condito in salsa italica, ovvero clientelare. È noto a tutti.
Il quesito da porsi, allora, è il seguente: com’è possibile che tutte le forze che si sono avvicendate al governo della Nazione, negli ultimi lustri, abbiano sempre e solo seguito, sia pur con qualche minima differenza, il paradigma keynesiano facendo mostra di ispirarsi ai medesimi principi statolatrici?
E ancora. Nelle altre nazioni è accaduto lo stesso? La destra e la sinistra, altrove, hanno dato prova di essere equipollenti ed egualmente stataliste? Se si esclude la Francia, un paese del Quarto Mondo esattamente come l’Italia, e proprio come questa non a caso governata sempre e solo da statalisti, di sinistra e di destra, la risposta non può che essere una: no. E perché mai, allora, l’Italia rappresenta un unicum?
Semplice. Perché essa, come qui abbiamo ripetuto centinaia di volte, non ha mai avuto una destra propriamente detta, liberale (innanzitutto e soprattutto) in economia, “conservatrice fiscale” e thatcheriana. Una destra che, per dirla à la Norberto Bobbio, avesse come scopo quello di garantire un valore su tutti: la libertà.
Non era di destra il Movimento Sociale Italiano: un partito che si ispirava al socialismo nazionale del primo fascismo e della Repubblica di Salò; e che, sui temi economici, esprimeva posizioni di estrema sinistra. Non lo era Alleanza Nazionale che, in talune sue componenti, è il caso della “destra sociale” allora capeggiata dal duo Alemanno & Storace, continuava a richiamarsi al “fascismo rosso”, al “fascismo di sinistra”; mentre in quelle più moderate, è il caso della corrente “destra protagonista” di Gasparri e La Russa, formulava proposte, sempre in tema di politica economica, tutt’al più di “centro”.
Il Paese ha annusato qualcosa di destra solo in due fasi: quando venne a vita la Lega – e non c’era giorno che Bossi, concionando, non pronunciasse alcune splendide parole proprie del dizionario di qualunque thatcherian-reaganiano: liberismo, deregulation, liberalizzazioni, privatization – e quando nacque Forza Italia. Per ragioni che qui sarebbe troppo oneroso esporre, quelle fasi durarono assai poco; i due partiti mutarono assai presto pelle e connotati politico-culturali; e, com’è di tutta evidenza, non ebbero modo di produrre alcuna trasformazione nel Paese.
L’assenza di una destra, propriamente detta, ha fatto sì che a contendersi il governo, nella Seconda Repubblica, fossero due blocchi che non è azzardato definire entrambi di sinistra: uno catto-social-comunista e massimalista, il cosiddetto centrosinistra, ed uno socialdemocratico e riformista, il cosiddetto centrodestra. Due blocchi che non hanno fatto altro che perpetuare la contrapposizione che, nella Prima Repubblica, vedeva, l’uno contro l’altro armati, il Partito Comunista Italiano ed il “pentapartito”, cioè la coalizione di centrosinistra di cui faceva parte, tra gli altri, il Partito Socialista Italiano – nel quale militavano i seguenti ministri dell’ultimo governo Berlusconi, dal primo all’ultimo ancora orgogliosamente socialisti, cioè di sinistra, per loro stessa ammissione: Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Margherita Boniver, Stefania Craxi, Franco Frattini, Renato Brunetta.
L’assenza di una destra, propriamente detta, ha privato l’Italia, è una verità à la Max Catalano, di una politica economica autenticamente di destra, cioè liberista. E i frutti sono sotto gli occhi di tutti: la spesa pubblica è al 52% del Pil, il livello più alto riscontrabile al mondo (se si eccettuano poche nazioni sottosviluppate come la Francia, dove eguaglia il 56%); il debito è arrivato a circa duemila miliardi di euro; il prelievo fiscale su singoli contribuenti arriva all’83%, mentre la pressione fiscale complessiva è la più alta al mondo (e proprio perché deve finanziare una spesa incredibilmente elevata); gli indici di libertà economica – fonte primaria di ricchezza, benessere, occupazione, mobilità sociale e possibilità di affrancarsi strutturalmente dall’indigenza – sono tra i più bassi del globo terracqueo, e tali da farci sfigurare anche di fronte al Ghana, al Burkina Faso, all’Azerbaigian, alla Malesia, al Ruanda, all’Albania ed alla Croazia; e molto altro si potrebbe ancora aggiungere.
Fino a quando il Paese non avrà una destra, normale e davvero tale, che si ispiri al liberal-conservatorismo dei Tory (inglesi) e dei Repubblicani (americani), sarà privo di una forza politica che si faccia carico di rappresentare stabilmente un’idea di sviluppo e di società opposta a quella che, sin qui, ne ha prodotto il Declino. Lo capirebbe, probabilmente, finanche un bambino.
Allo stesso modo, fino a quando il Paese non avrà una vera destra, che si prenda la briga di risolverne con radicali riforme liberali i pluridecennali problemi, rimettendone in moto l’economia e promuovendone lo sviluppo; fino a quando, cioè, non ci sarà un capovolgimento dei paradigmi politico-culturali da tutti seguiti, in sessant’anni di Repubblica, a tal punto accentuato da produrre significativi risultati positivi e tangibili, per la Nazione tutta, la sinistra italiana, l’impresentabile sinistra italiana, resterà convinta di poter restare sempre eguale a se stessa: infantile, inconcludente, pauperista, anti-liberale, regressista, autoritaria, sempre e comunque comunista.
E il Paese, invece, ha un disperato bisogno di una sinistra ed una destra liberali: per uscire da quel tunnel di cui tanti parlano e, il più delle volte, a sproposito.
Ma perché ciò accada, non è sufficiente venga a vita una destra liberale (la cui presenza, poi, stimoli la sinistra ad esserlo altrettanto). Serve ancora altro.
La storia politica degli ultimi vent’anni è stata caratterizzata da un’altra costante: la presenza, da una parte e dall’altra, di una molteplicità di partiti. Il pluripartitismo coalizionale, come dovrebbe essere chiaro a tutti, è il vero cancro nostrano: ciò che ha generato coalizioni-caravanserraglio che null’altro hanno fatto se non litigare al proprio interno e produrre risultati miserrimi. È il pluripartitismo che ha fatto fallire il bipolarismo italico. Non altro. È il pluripartitismo che ha generato veti, ricatti ed ostracismi che hanno inibito l’attività di governo delle due coalizioni. E per questo va pensionato: sostituendolo col bipartitismo.
Se si vuole Fermare il Declino, occorre cambiare il Paese per davvero: rimuovendo tutti gli ostacoli sistemici, politici ed economici, che lo ingessano.
Altrimenti ogni sforzo sarà vano ed inconcludente.