Set 12
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Una cosa, più di qualunque altra, caratterizza la sinistra ad ogni latitudine: l’anelito “redistributivista”. Perseguire l’obiettivo della “giustizia sociale”, cioè, facendone pagare il conto ai ricchi, con più tasse (acciocché, naturalmente, i poveri abbiano a pagarne meno e, al contempo, possano fruire di maggiori e migliori servizi). Questo è il fil rouge che accomuna, sia pur con differenze a volte non di poco conto, le diverse sinistre in qualunque parte dell’orbe terracqueo.
Ebbene, questo tratto è del tutto assente nel programma di Matteo Renzi.
In esso, però, si badi bene, non è che manchino proposte volte a migliorare le condizioni di vita delle fasce meno abbienti della popolazione. Nient’affatto. Semplicemente, Renzi non ragiona come un “redistributivista” e non propone soluzioni à la Robin Hood. Per dare più soldi in busta paga a chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese, egli suggerisce di ridurre la spesa corrente (pagina 11):
«Negli ultimi anni le famiglie italiane hanno visto il loro potere d’acquisto letteralmente crollare, tornando nel primo trimestre del 2012 al livello del 2000 (…). In una situazione come questa è assolutamente prioritario intervenire per sostenere il reddito disponibile delle famiglie, soprattutto dei lavoratori dipendenti con reddito medio e basso (…).
La nostra proposta è di ridurre l’imposizione tributaria sui lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 2000 euro netti al mese per un ammontare di 100 euro al mese (…). Stimiamo la platea interessata tra 15 e 16 milioni di lavoratori. Il costo della detrazione sarebbe quindi attorno a 20 miliardi di euro all’anno che proponiamo di finanziare attraverso il taglio della spesa pubblica “intermediata”».
Non ragiona, insomma, come Fassina e Vendola (e meno male): ragiona da liberal-democratico, più ancora che da persona di sinistra.
Allo stesso modo, e per quanto nel programma proponga comunque di incrementare la spesa per investimenti, Renzi dà prova di non essere uno statolatra, un fanatico ed acritico adoratore del Leviatano. Anzi. Lascia intendere, e in più di un passaggio, ch’esso, lungi dall’essere la soluzione, rappresenti, a suo avviso e almeno talvolta, il Problema (pagina 7):
«La nostra proposta ha invece l’obiettivo di ripensare sostanzialmente il modello di sviluppo fin qui seguito, riallocando risorse verso i ceti produttivi, riducendo in modo sostanziale l’area dell’intermediazione politica delle risorse dello Stato. Più mercato e più solidarietà, riducendo la spesa intermediata. Riteniamo realistici i seguenti obiettivi:
1. Una riduzione del 10% dei consumi intermedi (cioè acquisti di beni e servizi) per la spesa corrente. Base aggredibile: 120 miliardi. Obiettivo di risparmio: 12 miliardi all’anno
2. Una riduzione del 20-25% degli investimenti e dei trasferimenti alle imprese. Base aggredibile: 60-70 miliardi. Obiettivo di risparmio: 12-16 miliardi
3. Una riallocazione produttiva di 50% dei fondi europei. Base aggredibile: 15-20 miliardi. Obiettivo risparmio: 7-10 miliardi
4. Una riduzione dell’area del pubblico impiego, senza licenziamenti e senza esuberi, ma con estensione del part time, riduzione del numero dei dirigenti e limitazione del turn over, con esclusione della scuola, e migliore mobilità territoriale del dipendente pubblico. Obiettivo di risparmio 4 miliardi (…)».
A pagina 14, poi, pare fare capolino la cameroniana “Big Society”, addirittura:
«Le forme di welfare pubblico dovranno essere integrate dalle esperienze più virtuose provenienti dal mondo del welfare privato (senza che quest’ultimo vada a sostituire il welfare pubblico). Sono ormai estremamente diffuse soprattutto nelle regioni del Nord forme di complementarità al welfare pubblico sviluppate, da parte delle imprese, delle cooperative, delle associazioni del non-profit (cd. “welfare aziendale, sindacale, cooperativo”).
Su questo versante, occorre:
1. semplificare la legislazione sul Terzo Settore a partire da una vera attuazione della legge sulla Impresa Sociale bloccata da anni da veti ideologici, ma in grado di contribuire alla creazione di nuova e soprattutto “buona” occupazione;
2. riformare organicamente la disciplina delle associazioni, delle fondazioni e delle altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro riconosciute come persone giuridiche, delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche (libro I Titolo II del codice Civile) (…);
4. creare patti territoriali nel sociale che superino gli attuali piani di zona e che abbiamo la capacità di coinvolgere tutti i soggetti pubblici, privati e del privato sociale (Terzo Settore e Non profit) per la costruzione di un Welfare plurale ed attivo».
Mancano, all’interno di questo documento, e per fortuna, tutte le parole d’ordine della sinistra tradizionale e polverosa: non c’è riferimento alcuno alla lotta di classe (e ai suoi surrogati contemporanei e socialdemocratici); non si paventano, nemmeno lontanamente, provvedimenti punitivi nei confronti di chi guadagni abbastanza (si legga alla voce: patrimoniale); non si suggerisce, come soluzione alla crisi economica, l’intervento dello stato secondo i precetti keynesiani. Trovano spazio, invece, questioni che, pur affrontate in modo molto “soft”, stanno a cuore alle forze liberal-democratiche e a quelle liberal-conservatrici: la riduzione (almeno in taluni ambiti) del perimetro dello stato; la contrazione del debito pubblico (mediante privatizzazioni, per di più) e della spesa corrente; il contenimento della burocrazia e lo sfoltimento delle leggi; l’apertura al Mercato e alla concorrenza. Sono presenti, poi, temi che, benché rappresentino “bandiere” storiche della sinistra tradizionale, oggi sono inclusi anche nei programmi delle destre liberali europee: dalla cittadinanza ai figli degli immigrati al “divorzio breve” e al riconoscimento delle coppie gay.
Su quest’ultimo punto, in verità, il programma di Renzi è un po’ deludente. E per una ragione: inspiegabilmente, contempla due distinti istituti giuridici per disciplinare le convivenze gay e quelle etero (pagina 25). Non si capisce il perché di tale discriminazione.
Ciò detto, quella che il Sindaco di Firenze propone, almeno su alcune questioni, è una rupture vera. E, c’è da scommetterci, attirerà l’attenzione di un elettorato molto più ampio di quello del centrosinistra. Cosa che, par di capire, non è affatto chiara ai mammasantissima del Pdl.
Peggio per loro.