Ad un passo dal precipizio. Per colpa di Bersani

Fino a qualche giorno fa, nonostante l’esito “greco” del voto, un Parlamento balcanizzato e nessuna coalizione provvista della maggioranza dei seggi nelle due Camere, la situazione sembrava sotto controllo. Bersani, è vero, sin dalla chiusura delle urne aveva iniziato a flirtare col Movimento 5 Stelle: ma tutto sembrava essere null’altro che un’operazione di facciata destinata a tranquillizzare i propri elettori e a far creder loro che si stesse battendo ogni strada, anche la più improbabile, pur di scongiurare, ovvero: prima di prendere in considerazione, l’eventualità di dare vita ad un “governissimo” col tanto odiato Cavaliere. Pura tattica, insomma. Niente in più.

La questione è che, nelle ultime ore, lo scenario sembra essere sensibilmente mutato; e, per il Paese, le cose potrebbero mettersi davvero male. Bersani, ora come ora, se la trattativa coi grillini dovesse naufragare, cosa altamente probabile, sembrerebbe orientato, a detta dei “retroscenisti”, a chiedere il voto anticipato (c’è già una data: il 30 giugno). Nessuno spazio, dunque, parrebbe residuare per una trattativa col centrodestra (che pure, sin dal principio, s’era dichiarato, per bocca di Berlusconi, disponibile ad un governo di unità nazionale). Vittoria o morte, insomma, lo slogan scelto dal leader del Pd: un uomo che, a quanto pare, non riesce a fare i conti con la realtà né a pensare agli interessi del Paese.

I conti con la realtà, innanzitutto. Ad uscire sconfitto dalle urne non è stato il Pd, ma Bersani: ovvero la sua linea economica di matrice social-comunista, infarcita di patrimoniali, di slogan minacciosi nei confronti del ceto medio e medio-alto. È questa ad aver alienato simpatie al partito, ad aver impaurito parte dell’elettorato e fatto crollare, nel giro di 60 giorni, i consensi dei democrat dal 36% (registrato all’epoca delle primarie) al 25,42 (ottenuto alla Camera) e al 27,43 (ottenuto al Senato). Se fosse stato una persona seria e responsabile, Bersani, in quanto segretario del partito e candidato premier, avrebbe assunto su di sé la responsabilità della débâcle elettorale e, conseguentemente, rassegnato le dimissioni il giorno dopo lo spoglio.

Invece s’è asserragliato in un bunker. Ha negato prima la sconfitta; poi ogni propria responsabilità nella stessa; infine ha stilato un programma di governo in 8 punti, da presentare all’attenzione dei Pentacolari, nel quale ha ricompreso le medesime proposte che aveva già presentato in campagna elettorale e in ragione delle quali ha rimediato una sonora sconfitta. Pura pazzia e negazione della realtà.

Come se non bastasse, sostenendo la necessità di ricorrere nuovamente al voto, in queste ore sta dando prova di non considerare prioritario l’interesse del Paese; e di voler anteporre ad esso le proprie meschine ambizioni personali.

Ritornare alle urne, per la Nazione, sarebbe una tragedia: finirebbe nuovamente sotto attacco della speculazione (nessuno può escluderlo, ex ante); subirebbe una nuova impennata dello spread; e, cosa più rilevante, sarebbe costretta a patire, in assenza di un governo nella pienezza dei suoi poteri, nuovi aggravi fiscali.

A luglio, ad esempio, è previsto debba entrare in vigore il nuovo incremento dell’aliquota ordinaria Iva, dal 21 al 22%. Se per quella data non dovesse essere già in carica un esecutivo, cosa certa se si tornasse alle urne il 30 giugno come chiede Bersani, la stangata non potrebbe essere scongiurata, con il varo di tagli alla spesa corrente (ad esempio), e sarebbe dunque inevitabile. Potremmo permettercela? Potrebbe permettersela il Paese la cui economia, già oggi, è oltremodo debilitata? Assolutamente no.

Allo stesso modo, ne abbiamo parlato qualche mese fa, il governo Monti forse lascia un buco di bilancio di 7-8 miliardi di euro (l’ha denunciato, neanche a farlo apposta, proprio Bersani). Questo potrebbe richiedere un’ulteriore manovra correttiva dei conti pubblici. Il punto è che se si ritornasse al voto il 30 giugno, il nuovo esecutivo non potrebbe insediarsi prima di agosto. Se, dunque, fosse necessario porre in essere celermente un “aggiustamento” di Finanza pubblica per coprire quell’ammanco e rispettare i vincoli europei, il nuovo esecutivo, per mancanza di tempo, non potrebbe far altro che ricorrere a maggiori entrate, cioè nuove tasse, visto che i tagli di spesa richiedono sempre tempi più lunghi. Potremmo permetterci altre o maggiori imposte? I consumi, già oggi a picco, come reagirebbero? E l’occupazione, dinanzi ad un ulteriore calo della domanda interna, quali sorti patirebbe?

Tutte questioni (assieme a molte altre) che, se Bersani fosse una persona seria e responsabile, dovrebbero indurlo a fare un passo indietro; e a sponsorizzare, senza esitazione alcuna, la nascita di un governo di larghe intese (magari capeggiato da Renzi, sul cui nome convergerebbero certamente e il Pdl e la coalizione Monti).

Anche perché, se si sciogliessero anticipatamente le Camere, non ci sarebbe il tempo di modificare il Porcellum; e il Movimento 5 Stelle, oggi dato in crescita nei sondaggi (+3% rispetto alle ultime elezioni), potrebbe raccogliere così tanti voti da superare qualunque altra coalizione ed aggiudicarsi, in tal modo, il premio di maggioranza e la facoltà di governare il Paese (nessuno può escluderlo e rientra nel novero delle cose possibili).

Il Fascismo, a quel punto, sarebbe nuovamente tra noi.

Solo per colpa di Bersani.



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9 Responses to "Ad un passo dal precipizio. Per colpa di Bersani"

  • Augusto says:
  • camelot says:
  • giancarlo says:
  • FabioC. says:
  • camelot says:
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