Mar 13
27
Se solo avessero avuto a cuore il bene del Paese
«Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».
Dare vita ad un governo “politico” di larghe intese, appoggiato da Pd, Pdl e Scelta Civica, e dotarlo di un’agenda programmatica condivisa ed in grado di dare risposte immediate ai bisogni materiali degli italiani: questa, la strada obbligata che, all’indomani dell’esito “greco” del voto, i politici nostrani avrebbero dovuto percorrere. E per tutelare l’interesse del Paese.
Bersani avrebbe dovuto farsi prontamente da parte; riconoscere la propria responsabilità nella sconfitta del fronte progressista e dire addio a Palazzo Chigi: il gesto sarebbe stato unanimemente giudicato serio e responsabile e avrebbe consentito alle “tre minoranze” di sedersi attorno ad un tavolo per cercare un’intesa.
Un accordo, politico e programmatico, d’altra parte, sarebbe stato facilmente conseguibile: il Capo dello Stato, che nelle ore immediatamente successive al voto lo aveva consultato per sondarne gli umori, avrebbe potuto affidare un mandato esplorativo, un pre-incarico o qualcosa di simile, a Matteo Renzi. Il quale, avendo corso alle primarie del Pd con un programma abbastanza liberale, e soprattutto nient’affatto di sinistra, avrebbe potuto sottoporlo al vaglio del Pdl e di Scelta Civica come base di partenza per un dialogo.
A quel punto, un accordo avrebbe potuto vedere la luce e, per di più, in tempi brevi: stanti i numerosi punti di contatto tra il programma renziano e quello delle altre due formazioni politiche.
Tre questioni, su tutte, avrebbero rappresentato l’architrave dell’agenda dell’esecutivo di larghe intese: (1) l’abbattimento del debito pubblico, mediante privatizzazioni; (2) la riduzione della spesa corrente; (3) un incisivo taglio della pressione fiscale.
Nel programma di Renzi, infatti, era dato leggere quanto segue (a pagina 7):
a. Ridurre il debito attraverso un serio programma di dismissioni del patrimonio pubblico.
Devono essere messe in atto tutte le misure necessarie affinché il debito pubblico cali in modo significativo, anno dopo anno, anche negli anni in cui la congiuntura è sfavorevole, in particolare i prossimi due. Per mantenere tale impegno è necessario mettere in atto un’efficace politica di dismissioni del patrimonio pubblico. Stime credibili (Astrid) ritengono possibile una riduzione del debito al 107% del Pil entro il 2017 e un’ulteriore calo negli anni successivi attraverso un mix di interventi.
In particolare, sul versante degli del patrimonio è possibile ipotizzare:
1. l’individuazione di immobili pubblici per circa 120 miliardi di euro da valorizzare e gestire, così come da preparare per la vendita. Non vogliamo svendere i gioielli dello Stato, ma ridurne l’impronta finanziaria e immobiliare (nonché i relativi costi);
2. una indispensabile revisione delle procedure burocratiche e urbanistiche in assenza della quale ogni valorizzazione di questo patrimonio è impossibile);
3. la cessione di partecipazioni in aziende quotate e non quotate per circa 40 miliardi euro tenendo conto di considerazioni strategiche e di interesse nazionale; 4. la capitalizzazione delle concessioni statali per circa 30 miliardi.
Analoghe posizioni erano espresse nel programma di Monti e di Scelta Civica (a pagina 5):
Il Paese dovrà continuare l’impegno per il risanamento dei conti pubblici in coerenza con gli obblighi europei in materia di disciplina delle finanze pubbliche, ed in particolare:
attuare in modo rigoroso a partire dal 2013 il principio (di cui al nuovo articolo 81 della nostra Costituzione) del pareggio di bilancio strutturale, cioè al netto degli effetti del ciclo economico sul bilancio stesso;
ridurre lo stock del debito pubblico a un ritmo sostenuto e sufficiente in relazione agli obiettivi concordati (…);
ridurre a partire dal 2015, lo stock del debito pubblico in misura pari a un ventesimo ogni anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 60% del prodotto interno lordo;
proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico, in funzione della riduzione dello stock del debito pubblico (ogni provento deve essere integralmente destinato a questo scopo).
E propositi equipollenti si rinvenivano nel programma del Pdl (a pagina 34):
In 5 anni, rapporto debito-Pil sotto quota 100%
Attacco complessivo al debito pubblico da 400 miliardi, basato su: vendita di immobili pubblici; messa sul mercato anche di partecipazioni azionarie pubbliche sia statali che locali (…).
Sull’abbattimento del debito pubblico, dunque, e come è facile appurare, una convergenza programmatica sarebbe stata praticamente certa. Come lo sarebbe stata sui tagli di spesa e sulla riduzione dell’imposizione fiscale.
Sempre nel programma di Renzi si leggeva (a pagina 7):
«La nostra proposta ha invece l’obiettivo di ripensare sostanzialmente il modello di sviluppo fin qui seguito, riallocando risorse verso i ceti produttivi, riducendo in modo sostanziale l’area dell’intermediazione politica delle risorse dello Stato. Più mercato e più solidarietà, riducendo la spesa intermediata. Riteniamo realistici i seguenti obiettivi:
1. Una riduzione del 10% dei consumi intermedi (cioè acquisti di beni e servizi) per la spesa corrente. Base aggredibile: 120 miliardi. Obiettivo di risparmio: 12 miliardi all’anno
2. Una riduzione del 20-25% degli investimenti e dei trasferimenti alle imprese. Base aggredibile: 60-70 miliardi. Obiettivo di risparmio: 12-16 miliardi
3. Una riallocazione produttiva di 50% dei fondi europei. Base aggredibile: 15-20 miliardi. Obiettivo risparmio: 7-10 miliardi
4. Una riduzione dell’area del pubblico impiego, senza licenziamenti e senza esuberi, ma con estensione del part time, riduzione del numero dei dirigenti e limitazione del turn over, con esclusione della scuola, e migliore mobilità territoriale del dipendente pubblico. Obiettivo di risparmio 4 miliardi (…)».
E, in tema di tagli alle tasse, ecco cosa si proponeva (a pagina 11):
«Negli ultimi anni le famiglie italiane hanno visto il loro potere d’acquisto letteralmente crollare, tornando nel primo trimestre del 2012 al livello del 2000 (…). In una situazione come questa è assolutamente prioritario intervenire per sostenere il reddito disponibile delle famiglie, soprattutto dei lavoratori dipendenti con reddito medio e basso (…).
La nostra proposta è di ridurre l’imposizione tributaria sui lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 2000 euro netti al mese per un ammontare di 100 euro al mese (…). Stimiamo la platea interessata tra 15 e 16 milioni di lavoratori. Il costo della detrazione sarebbe quindi attorno a 20 miliardi di euro all’anno che proponiamo di finanziare attraverso il taglio della spesa pubblica “intermediata”»
Quanto a Monti, ecco cosa suggeriva:
«Aumento a partire dal 2013 della detrazione sulla prima casa da 200 a 400 euro. Raddoppio delle detrazioni per figlio a carico da 50 a 100 euro per figlio. Introduzione di una detrazione di 100 euro per gli anziani che vivono soli. Tutto fino a un massimo di 800 euro. Il costo stimato è di 2,5 miliardi. La copertura viene dal contenimento della spesa corrente primaria pari a circa 3 miliardi».
«Eliminazione del monte salari dalla base imponibile Irap. Il totale della riduzione dell’Irap alla fine della legislatura sarà pari a un dimezzamento dell’attuale carico fiscale sul settore privato. Sono 11,5 miliardi di imposta in meno in cinque anni sulle imprese. Priorità alle piccole e medie imprese».
«Vogliamo ridurre in maniera significativa il peso dell’Irpef a partire dai redditi medio-bassi. E il taglio fiscale avverrà attraverso l’aumento delle detrazioni per i carichi familiari e la riduzione delle aliquote a partire da quelle più basse. Complessivamente nella legislatura ridurremo il gettito Irpef di 15,5 miliardi, corrispondenti a una riduzione del rapporto tra gettito e Pil del 2%. Con questa misura vogliamo liberare risorse per le famiglie e sostenere i consumi».
E ancora, in tema di copertura finanziaria e dunque di tagli alla spesa:
«Blocchiamo la spesa pubblica corrente al netto degli interessi. Lo Stato non spenderà un euro in più rispetto al 2012. Questo significa una riduzione a fine legislatura del rapporto tra spesa pubblica e pil del 4% nell’arco di cinque anni. È coerente con il nostro impegno con l’Europa, ed è un obiettivo credibile ottenuto con misure che hanno tutte le coperture necessarie».
Nel programma del Pdl, invece, in materia di tagli di spesa, si leggeva (a pagina 35):
Intervento di forte riduzione della spesa pubblica, per un risparmio di almeno 16 miliardi all’anno.
Sul versante del taglio alle imposte, invece, quanto segue (a pagina 13):
Eliminazione dell’IMU sulla prima casa
No alla patrimoniale
No all’aumento Iva
Tendenziale azzeramento (in 5 anni) dell’Irap, a partire dal lavoro, con priorità alle piccole imprese e agli artigiani
Diminuzione della pressione fiscale di 1 punto all’anno (5 punti in 5 anni).
A grandi linee, i tre programmi, è indiscutibile, presentavano molteplici punti di contatto. Per questo Renzi, se avesse ricevuto un mandato esplorativo o un pre-incarico dal Capo dello Stato, almeno sulla carta, non avrebbe avuto grosse difficoltà a stilare un’agenda di governo e a dare vita ad un esecutivo di larghe intese. Il quale, oltretutto, avendo un orizzonte programmatico sufficientemente liberale, e dunque incentrato su una riduzione del prelievo fiscale, sarebbe riuscito a fornire stimoli alla ripresa economica e al riassorbimento della disoccupazione. Attenuando, in tal modo, il diffuso malessere sociale che è il brodo di coltura del grillismo.
E, invece, a trenta giorni dal voto, siccome Bersani non ha voluto farsi da parte, siccome hanno prevalso infimi egoismi, e tatticismi di ogni sorta, il Paese è ancora alla deriva.
In attesa di sapere di quale morte debba morire.