Renzi nulla ha a che vedere con Blair e Schröder. Non è un riformista

Qualche giorno fa, Claudio Velardi, che non necessita di presentazioni e che stimo soprattutto per tre ragioni: 1) perché è napoletano, 2) perché è napoletano e 3) perché è napoletano, sul proprio blog ha vergato un pezzo, poi ripreso dal quotidiano Italia Oggi, dal tono alquanto irato, con il quale ha cazziato Antonio Polito, che non necessita a sua volta di presentazioni e di cui ho grande stima soprattutto per tre ragioni: 1) perché è napoletano, 2) perché è napoletano e 3) perché è napoletano, in quanto, dalle colonne del Corriere della Sera, si “ostina” a bacchettare Renzi, a non apprezzarne la caratura da leader (non ridete) e le posizioni riformiste. Questi, i suoi argomenti:

«Mi chiedo perché colui che ritengo il migliore commentatore politico italiano ce l’abbia tanto con Matteo Renzi. Antonio Polito è mio amico da decenni. E’ stato da ragazzo militante e giornalista comunista, ha poi sciacquato i suoi ruvidi panni di appartenenza facendo carriera a Repubblica, completando il dirozzamento nella swinging London di Toni Blair, e costruendo poi quel gioiellino che è stato il “Riformista”. Ha compiuto così, con travaglio personale e buone letture, un percorso che condivide con la gran parte dell’attuale classe dirigente del paese. Ragazzi già sognatori di rivoluzioni, invecchiati da riformisti scettici blu, in un paese che le riforme le ha sempre viste con il cannocchiale. Incuriositi e speranzosi quando all’orizzonte è apparso il giovanotto fiorentino. Toh, stai a vedere che è la volta buona.

Eppure, non è passato un mese (un mese!) dall’avvento di Matteuccio alla segreteria del Pd, che Polito ha già perso le speranze (…)».

L’articolo continua, ma la sostanza dovrebbe essere chiara: ma come, caro Polito, tu che sei un riformista non tifi per Renzi che lo è?

‘O direttore non ha bisogno di difensori e provvederà di persona, qualora lo ritenga opportuno, a spiegare le proprie ragioni a chi lo “accusa”. A me, questo siparietto frivolo interessa solo perché nell’atteggiamento di Velardi, che non è solo il suo e per questo acquista rilievo, vedo uno dei tanti problemi che affliggono il nostro paese, sia al vertice (nella classe dirigente) che alla base (nel popolo): l’indomita attitudine a prendersi per il culo, a rappresentarsi la realtà così com’essa non è, a raccontarsi un mare di cazzate, balle, bubbole. A questo atteggiamento, poi, ne segue necessariamente un altro che si appalesa quando, volenti o nolenti, con la “realtà reale” si devono fare i conti; e tutte le bubbole che ci si è raccontati, a quel punto, devono trovare un perché: ecco allora emergere il giustificazionismo.

Esempio. Berlusconi, che è sempre stato un convinto thatcheriano e reaganiano (rappresentazione falsa della realtà), non ha fatto la cosiddetta rivoluzione liberale? È tutta colpa di Casini, Fini, Tremonti e dei sindacati che non gliel’hanno fatta fare (giustificazionismo).

Di esempi come questo se ne potrebbero fare tanti, ma credo di essere stato chiaro: in questo paese, per innumerevoli ragioni, si finisce sempre per essere supporter acritici di un partito o un politico, esattamente come lo si è della propria squadra di calcio. Essa non sbaglia, non può sbagliare; e, se perde un partita, è colpa dell’arbitro o del fatto che l’altra squadra abbia corrotto i guardalinee.

Insomma, tendiamo ad idealizzare i protagonisti della politica e, se ad un certo punto ci accorgiamo che non hanno operato per il meglio, invece di ammetterlo, e di prendercela con noi stessi e la cattiva rappresentazione che ci siamo fatti della realtà, finiamo addirittura per difenderli giustificandone le malefatte. È un errore che facciamo tutti e da sempre. Forse, e dico: forse, sarebbe arrivato il momento di smetterla. Ma arriviamo al dunque, ovvero all’oggetto del post.

Renzi è un riformista, cioè un social-liberale, come asserisce Velardi? Ha intenzione di migliorarecambiare non significa una beneamata mazza – il Paese? Ha idee giuste? Programmi adatti a risolvere concretamente i nostri problemi e non aggravarli? Soprattutto, ha qualcosa in comune con i riformisti che lo hanno preceduto in Europa, due su tutti: Blair e Schröder?

Partiamo da quest’ultimo quesito provando, innanzitutto, a dare una definizione, ancorché minima e nient’affatto esaustiva, di ciò che è il riformismo nei fatti, cioè nelle politiche di coloro che riformisti si son definiti e continuano a definirsi.

1) Il riformismo accetta l’economia di mercato ed il sistema capitalistico, senza se e senza ma. Tende ad utilizzare la spesa pubblica, ovvero il Welfare, per introdurre correttivi (a volte minimi, a volte più consistenti) all’una e all’altro per meglio conseguire finalità “sociali”.

2) I riformisti ripudiano la lotta di classe. Non appartiene nemmeno al loro lessico.

3) I riformisti rifuggono l’utopismo della sinistra massimalista, quella social-comunista. Dunque usano relazionarsi alla realtà e fare i conti con essa, anziché piegarla alle proprie interpretazioni fideistico-dogmatiche. Per questa ragione, oltreché per carpire il consenso degli elettori di destra, essi mutuano dai liberal-conservatori, da sempre realisti più del Re, tre tipi di interventi (politiche): 1) quelli in ambito economico-fiscale (con i dovuti correttivi); 2) quelli riguardanti il mercato del lavoro; 3) quelli riguardanti l’immigrazione clandestina e la lotta alla criminalità.

Ora, se non sono rispettate queste tre condizioni, soprattutto quelle di cui al punto 3), non ci si trova in presenza di un politico riformista.

Passiamo brevemente in rassegna gli interventi adottati da Schröder e Blair, partendo da quest’ultimo.

Tonino Blair, checché ne dicano tutti, dagli intellettuali ai direttori di giornale, dai politici ai commentatori, dei due è stato il meno liberal-liberista e il più classicamente socialista.

Ha accresciuto, e di molto, la spesa pubblica, soprattutto quella in conto capitale. Ha investito in scuola ed università, onde renderle efficaci “ascensori sociali”. È intervenuto sul sistema sanitario nazionale per ridurne i tempi d’attesa. Ha investito, non soltanto in termini economici, insomma, sul pubblico, cioè sullo stato. Lo ha riportato in auge. Ha introdotto, poi, il salario minimo. In tema di riduzione delle imposte, invece, non è che abbia fatto molto di significativo, diciamo francamente.

Di seguito, due tabelle, pubblicate da The Economist, che mettono a confronto i risultati delle politiche della Thatcher con quelle di Blair.

Com’è di tutta evidenza, nell’èra Blair, sviluppatasi dal 1997 al 2007, la spesa pubblica complessiva (in rapporto al Pil) è significativamente cresciuta (primo grafico). Allo stesso tempo, e rispetto all’èra Thatcher, sono diminuiti tanto il Pil pro capite (primo grafico) quanto il reddito reale disponibile delle famiglie (secondo grafico). E altro non c’è da aggiungere.

Ora, se è vero che, dei due, Tonino è stato quello più classicamente socialista in fatto di utilizzo della spesa pubblica, è altrettanto vero che ha agito da riformista autentico sulle altre questioni.

In tema di mercato del lavoro, il Nostro non ha minimamente intaccato le riforme thatcheriane. Fuor di metafora: ha fatto in modo che la flessibilità, in entrata ed in uscita, restasse pienamente operativa perché solo in tal modo la disoccupazione avrebbe potuto diminuire ancora.

Per capire le sue posizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina, poi, possiamo trarre ausilio da un articolo de La Repubblica del 2002:

«Pugno di ferro con i clandestini, braccia aperte all’ Euro (…). Blair ha chiesto ancora ieri misure forti e comuni contro l’immigrazione clandestina, è schierato con Aznar e Berlusconi per fare della riforma del sistema dell’asilo politico, «che non funziona più», il primo punto in agenda del vertice. Il leader laburista, molto allarmato «da quanto è successo nelle urne europee negli ultimi diciotto mesi», dà una motivazione politica alla necessità di contrastare i flussi illegali di immigrati: «Noi leader europei dobbiamo trovare l’ accordo su misure comuni: se non lo facciamo lasciamo il campo a chi non vuole risolvere i problemi ma semplicemente sfruttarli. È giusto parlare contro il populismo e l’ estremismo, ma francamente è inutile se a questo non si fanno seguire atti concreti per dare una risposta alle preoccupazioni della gente che gli estremisti sfruttano». Secondo Blair i cittadini non sono contro la immigrazione legale, ma contro «il disordine» che regna in questa materia per le differenti legislazioni nazionali (…). I rapporti con Parigi, pur ottimi nella comune convinzione «che bisogna costruire un’ Europa di nazioni e non un Superstato», non hanno impedito un dissidio alla vigilia di Siviglia. Ancora ieri l’ Eliseo ha confermato la sua contrarietà, insieme con la Svezia, al progetto Aznar-Blair di imporre sanzioni economiche a quei paesi poveri che non collaborano con la Ue riprendendosi gli immigrati illegali (…)».

«Pugno di ferro con i clandestini», «misure forti contro l’immigrazione clandestina», «schierato con Aznar e Berlusconi», «necessità di contrastare i flussi illegali di immigrati», «imporre sanzioni economiche a quei paesi poveri che non collaborano con la Ue riprendendosi gli immigrati illegali». E altro non c’è da aggiungere.

Passiamo, adesso, a Gerhard Schröder, il più grande riformista di tutti i tempi: un vero e proprio gigante (secondo, per statura politica e morale, solo alla Thatcher).

Questo signore, al contrario di Blair, prese la guida della propria nazione quando essa era il “malato d’Europa”: ad un passo dalla morte. E fece alcune cose semplici semplici:

1) Tagliò di circa 60 miliardi le tasse a tutti. Portò l’aliquota marginale, quella dei ricchi, dal 52 al 42%; e quella gravante sul primo scaglione di reddito, al 15%.

2) Introdusse dosi massicce di flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso svariate misure e nuove figure contrattuali come quella dei mini-jobs.

3) Falcidiò draconianamente la spesa pubblica, tutto ciò che rappresentava sprechi o che non era economicamente più sostenibile, come parte dei munifici sussidi di disoccupazione. (E tanto altro ancora che, per mere ragioni di brevità, trascuro di elencare).

Grazie a queste misure, nel volgere di pochi anni, la Germania divenne la locomotiva d’Europa: quella che è oggi.

Il Nostro, che fu al potere dal 1998 al 2005, poi, nel 2004 ebbe ad introdurre anche il reato di immigrazione clandestina:

«In Germania, le condotte e le fattispecie criminose inerenti all’immigrazione sono elencate e disciplinate dal § 95 AufenthG. Ai termini di tale disposizione, l’immigrazione illegale dei cittadini extracomunitari è configurata, in presenza di determinate condotte e/o a seconda del grado di colpevolezza del soggetto, come reato: il § 95 disciplina le sanzioni prevedendo sia la reclusione (Freiheitstrafe), da uno a tre anni, sia la sanzione pecuniaria (Geldstrafe) », (Corte Costituzionale, pagina 16).

Mi chiedo e vi chiedo. Se il riformismo è questo, ed è questo, sempreché non si voglia negare la realtà, i fatti, ciò che avviene in questa dimensione spazio-tempo, cosa cacchio c’entra Matteo Renzi con esso e, quindi, con Blair e Schröder?

Quest’ultimi, come abbiamo visto, erano fortemente contrari all’immigrazione clandestina non perché xenofobi, evidentemente, ma perché consapevoli del fatto che le frontiere di una nazione non possano essere aperte a chicchessia, senza regole, in nome di un malinteso ed utopico senso di altruismo secondo cui si deve accogliere chiunque; perché a pagarne il conto, altrimenti, sono i più poveri: coloro nei cui quartieri finiscono per risiedere, immancabilmente, quegli immigrati che, privi di un lavoro, non possono che dedicarsi allo spaccio di sostanze stupefacenti o ad altre attività illegali. L’utopismo è il nemico dei poveri, come sanno i pragmatici. E i riformisti lo sono.

Renzi, invece, non lo è. Nelle ultime settimane, neanche fosse un militante di Rifondazione comunista o di un centro sociale, un giorno sì e l’altro pure, non ha fatto altro che chiedere, demagogicamente e populisticamente, l’abolizione della Bossi-Fini (che, come spiegato a più riprese, non è altro che una rivisitazione-integrazione della Turco-Napolitano). In cosa è riformista su questo tema?

In niente. Tanto più che, a condividere le posizioni di Blair e Schröder, è finanche l’attuale Ministro degli interni del più social-comunista Gabinetto d’Europa, quello francese guidato da François Hollande, Manuel Valls. Il quale non solo ha dato ordine di smantellare a destra e a manca i campi abitati dai rom, roba che se lo avesse fatto un Calderoli qualsiasi sarebbe stato come minimo dipinto quale nazista e crocifisso dalla stampa progressista, ma poi ha anche tranquillamente detto che «queste popolazioni hanno degli stili di vita profondamente diversi dai nostri» ed «è illusorio pensare che si risolverà il problema delle popolazioni rom unicamente con l’integrazione», «non c’è altra soluzione che smantellare progressivamente questi accampamenti e ricondurre (queste popolazioni) alla frontiera».

Ecco, Renzi, in tema di immigrazione illegale, non è un riformista, lo si accetti o meno, perché ha posizioni perfettamente in linea con quelle della sinistra comunista.

Veniamo alle questioni economiche.

Un anno fa, lo si è detto anche di recente, il Toscanaccio aveva ottime posizioni e lib-dem, ancor più che lib-lab: chiedeva meno spesa e tasse; più liberalizzazioni e privatizzazioni; meno stato e più privato e mercato. Esprimeva punti di vista più che condivisibili, e in sintonia con quelli dei riformisti, insomma.

Da sera a mane, però, ha cambiato idea su tutto e si è convertito al “maanchismo” paraculo di Veltroni: il lunedì, ora, chiede un po’ meno spesa; il martedì ne vuole di più; il mercoledì dice che si deve fare qualche privatizzazione; il giovedì, invece, asserisce sia necessario nazionalizzare aziende, a destra e a manca; il venerdì vuole ridurre le tasse a tutti, perché troppo alte; il sabato dice che le tasse sul risparmio (cui allude quando parla di rendite finanziarie) vadano innalzate; la domenica, invece, fa la cosa giusta: tace.

Cos’ha di riformista, questo signore, caro Velardi?

Ha il coraggio, le palle, di proporre cose impopolari e giuste: licenziare mezzo milione di dipendenti pubblici onde reperire una parte delle risorse necessarie a tagliare le tasse e rimettere in moto l’economia? Neanche per idea.

Ha il coraggio, le palle, di dire che occorra render ancor più flessibile in entrata il mercato del lavoro, perché solo così, in questo momento, si può emancipare dalla disoccupazione i giovani? Neanche per idea. Come un cazzone bolscevico qualsiasi, propone di rimpiazzare, cosa che distruggerebbe centinaia di migliaia di posti di lavoro, la Legge Biagi con il contratto (unico?) a tutele crescenti. Un pazzo. Peggio: un autentico criminale.

In cosa è ancora riformista, e quindi utile al Paese, questo Matteo Renzi che, per raccattare qualche voto a sinistra e diventare segretario del Pd, come una puttana, s’è venduto al miglior offerente mandando al macero le idee, che di un uomo politico costituiscono sempre l’anima, che sbandierava solo dodici mesi fa? Come ci si può fidare di uno che cambia idea a seconda della convenienza elettorale?

Lo chiedo a voi, cari Velardi vari, perché ne parlate manco si trattasse di un Padre Pio, magnificandone ogni singola parola o gesto, finanche i peti, e facendo finta di non vederne le continue giravolte su tutto: indici, inequivocabili, di inaffidabilità ed “immoralità”. Lo chiedo a voi, infine, perché voi lo voterete facendolo vincere e diventare premier; e se non farà le cose giuste, quelle poste in essere ad esempio da Schröder, il Paese perirà. E la responsabilità sarà solo vostra.

E del vostro avergli leccato acriticamente il culo.



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7 Responses to "Renzi nulla ha a che vedere con Blair e Schröder. Non è un riformista"

  • Pier Paolo says:
  • PIER PAOLO says:
  • camelot says:
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