Apr 14
30
«Per sfatare le malevoli dicerie su certe bestie, il presidente degli “animalisti” italiani ha offerto un premio di 200 milioni di lire a chi potrà dimostrare che i corvi scrivono lettere anonime e che le talpe fanno le spie. È vero: di simili casi non ne conosciamo. Ma di somari che fanno i presidenti, ne conosciamo parecchi» (Indro Montanelli, Il Giornale, 5 luglio 1992).
Il punto è sempre il medesimo. Non è in gioco solo il destino (politico) di Matteo Renzi, è in gioco il destino del Paese: la sua tenuta democratica.
Se il Toscanaccio governa male, sbaglia, mente, prende per i fondelli il popolo, promettendogli cose che poi non gli concede, non sarà solo lui a pagarne le conseguenze, in cabina elettorale e quando si tornerà al voto, ma tutti noi che non vogliamo finire vittime di una deriva autoritaria per mano del Movimento 5 Stelle. Non è interesse solo del Pd, e più in generale del centrosinistra, che il Nostro faccia bene, è interesse di tutti noi: anche degli apolidi di centrodestra come il sottoscritto che non lo voteranno mai. Per questo non si può, e non si deve, tacere sugli errori che sta commettendo, sulle promesse che sta disattendendo, sulla quantità sesquipedale di cazzate demagogiche e populistiche che sta propalando a tutti noi e che non risolveranno un solo problema del Paese. Non si può. Sono in gioco la democrazia e, soprattutto, la nostra libertà.
La storia è un po’ lunga (l’hanno raccontata bene sia Filippo Facci, su Libero, che Giovanni Favia); vedrò di riassumerla al massimo.
Gli incapienti sono i poveri veri: coloro che, guadagnando molto poco, fino a 8.000 euro lordi l’anno, non devono versare imposte all’Erario. Il loro numero è noto a tutti: circa 4 milioni di persone (come evidenzia la seguente tabella pubblicata sul sito degli economisti e dei giuristi vicini al Pd, LaVoce.info).
Non c’è alcuna rupture, alcuna discontinuità col passato (tranne in materia di privatizzazioni): la politica economica del governo Renzi, quale traspare dal Documento di Economia e Finanzia licenziato qualche giorno fa dal Consiglio dei Ministri, è perfettamente in linea con quella catto-social-comunista degli ultimi esecutivi capeggiati – in ordine temporale – da Berlusconi, Monti e Letta. Le sue coordinate, infatti, restano sempre le medesime: più spesa corrente e più tasse. Vediamone i dettagli.
È l’eterno ritorno dell’eterno.
«La direzione è quella sbagliata e ci sono solo 17 anni di tempo per cambiare rotta», scrive, stamane, il quotidiano di Largo Fochetti citando l’ultimo, memorabile, studio dell’Ipcc (il gruppo intergovernativo dell’Onu che analizza i cambiamenti climatici).
Apr 14
11
«Qualcosa da obbiettare abbiamo noi a questa pretesa che tutto ciò che non è di sinistra non possa che essere spalliera della destra e che la destra non possa essere che fascismo. Noi, di fascismi ne conosciamo e ne esecriamo uno solo: quello di chi appiccica questa etichetta a qualunque idea o opinione che non corrisponde alle sue. Di questo giuoco, la nostra sinistra è spesso maestra. Non per nulla lo stesso Mussolini veniva dai suoi ranghi» (Indro Montanelli, Il Giornale, 10 luglio 1974).
Se non mettiamo al bando la demagogia ed il populismo, non finiremo male, finiremo peggio.
La decisione di introdurre un tetto di 311.000 euro agli stipendi dei manager pubblici è, ad avviso del sottoscritto, e come detto altrove, un errore madornale: il rischio è che il “pubblico” finisca per attrarre solo gli incapaci, peggiorando la condizione, già pietosa, in cui versano le società dello stato. Se il “privato”, tanto per fare un esempio, offre 3.000.000 di euro l’anno ai bravi manager, perché mai costoro dovrebbero accettare di lavorare per il “pubblico” e guadagnarne “solo” 300.000? Non solo. Se si fosse voluta fare una cosa davvero giusta, utile soprattutto a migliorare la gestione delle aziende statali (e, dunque, la qualità dei servizi offerti ai cittadini), più che tagliarlo, lo stipendio dei manager, lo si sarebbe dovuto suddividere in due parti, una fissa ed una variabile; e legare quest’ultima alle performance conseguite: migliori queste, più alta quella e, complessivamente, lo stipendio stesso.